Katherine Dunn o la segreta dolcezza del ring

Katherine Dunn, Il circo del ring. Dispacci dal mondo della boxe, tr. Leonardo Taiuti, 66thand2nd, pp. 268, euro 17,00 stampa, euro 11,99 epub

One Ring Circus. Dispatches from the World of Boxing ovvero la nobile arte della difesa non è solo affare di uomini. Raccolti in volume nel 2009 e ora, finalmente, pubblicati in Italia, gli articoli sportivi di Katherine Dunn (1945-2016) sono una lettura imprescindibile, un montante ben assestato a chi, da sempre, difende un pregiudizio duro a morire. “All’epoca in cui cominciai il lavoro al giornale, il pugilato era noto per essere ‘l’ultimo baluardo maschile’, e immaginavo che per una donna fosse un’impresa azzardata (…)” confessa, nell’illuminata introduzione al libro, la scrittrice e poetessa di Portland, Oregon. “Ben presto, però, la mia vanità venne demolita pezzo dopo pezzo dagli appassionati di boxe, ai quali, fintanto che facevo il mio lavoro, non importava niente che fossi una donna, un uomo o un babbuino dal sedere rosso.” Un lavoro iniziato per caso: con un resoconto minuzioso di un incontro trasmesso in tivù e trascritto da Katherine per il marito assente. È un coup de foudre. Ma non basta. La boxe va vista dal vivo. Occorre leggere e studiare. Imparare il linguaggio dei pugni. Allenarsi, insomma, come un aspirante pugile. Godendo di un palese privilegio, poiché all’epoca “essere una donna che scriveva di boxe ti dava un grande vantaggio: per andare in bagno non c’era mai la fila”. La palestra di Katherine, dal 1981, è il Willamette Week, “un giornale alternativo della città” ma, con gli anni, i suoi dispacci brillano anche su riviste patinate quali Vogue e Playboy.

Storie, interviste, cronache pugilistiche. Affondi meravigliosi e affilati scanditi, ne Il circo del ring, in tre parti, o meglio, tre round – A scuola di pugni. Montanti. Il grande rischio – i cui protagonisti non sono solo celebri sfidanti. Per arrivare a combattere sul ring (e scriverne come ha fatto Katherine) quel quadrato bisogna prima immaginarlo e il capo allenatore, rabdomante di futuri talenti, è il maestro accreditato da decenni di fatica e passione a decidere chi vi salirà e quando; è lui “a stabilire se le bestemmie sono tollerate, se il lavoro con gli sparring è feroce e competitivo o più incentrato su tecnica e movimenti. E poi c’è lo stile (…) l’allenatore imprime sui suoi allievi la propria idea di boxe, e ovviamente ce ne sono di bravi e di meno bravi”. Sa riconoscere in un bambino la rabbia e la timidezza, le ossa e i muscoli che ne faranno un dilettante e, forse, un campione. In Tagli è la figura del cutman ad assumere analoga importanza: se un pugile viene ferito intorno agli occhi il cutman all’angolo, con una dose calibratissima di adrenalina, deve saper rimarginare in sessanta secondi anche il più piccolo sfregio. Sanguinare per un boxeur può decretare la fine indecorosa del match. Perché la boxe, il più criticato e denigrato degli sport, è una scuola della violenza: attrae, affascina e, a volte, incanta.

Sangue e sudore. Aggressività e istinto di sopravvivenza. Nell’articolo Vizi e virtù della boxe è la stessa Katherine e la sua magnifica ossessione a diventare oggetto di un’analisi obiettiva e documentata, all’indomani della morte del pugile coreano Duk Koo Kim, battuto da Ray “Bum Bum” Mancini nel 1982: “Sono convinta che il pubblico della boxe non sia poi così diverso da quello che assiste agli altri sport (…) Discipline più letali della boxe vengono tollerate perché morte e mutilazione sono il mero risultato dell’azione, e non il suo obiettivo dichiarato”. È la malafede di una società che corteggia la violenza in ogni sua forma, ma di fronte alla barbara scorrettezza di un peso massimo grida allo scandalo (In difesa di Tyson: il morso della discordia). Per nulla intimidita dal coro unanime di indignati colleghi, Katherine sferra un attacco poderoso – e condiviso da chi firma questa recensione – a detrattori e moralisti, sviscerando fotogramma dopo fotogramma la sfida tra Iron Mike e Evander Holyfield del 28 giugno 1997.

“È giunto il momento di riconoscere la mutevolezza delle donne proprio come abbiamo fatto con gli uomini (…) Siamo deboli e feroci, buone e cattive, in pericolo e pericolose.” Con la stessa determinazione Katherine combatte l’inveterato pregiudizio di cui sopra: the World of Boxing è sempre stato popolato di donne. Sin dagli anni Ottanta dell’Ottocento, per la precisione, e negli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso: prima fenomeni circensi poi tough women, “donne toste”, che lottavano in competizioni ai margini della legalità. Indomite pioniere della boxe femminile prima della consacrazione della sedicenne Dallas Malloy nel 1993 e di altre pugilesse ai prestigiosi Golden Gloves di New York (Le ragazze d’oro, Altrettanto feroci, Knockout: Lucia Rijker). Il resto è già storia. Come il match tra Laila Ali e Jacqui Frazier-Lyde nel settembre 2001. Allora, la golden age della boxe era un pallido ricordo. Il circo del ring ne restituisce appieno vizi e virtù. E, che vi piaccia o no, la sua “segreta dolcezza”.