La scuola oggi, tra iperscolarizzare e descolarizzare

Agli estremi opposti, le visioni di don Milani e Ivan Illich convergevano nell’idea di democratizzare la pedagogia per retroagire su una società diseguale. Da qui occorre ripensare oggi la complessità della scuola, un'istituzione che ha perso il confronto con il mondo dei media e della comunicazione. E ora rischia di scomparire nelle nebbie della pandemia.

SCUOLA OGGI / 2 

L’uno dice: “Vi do qualche notizia su questi orari: facciamo scuola dall’otto di mattina all’otto di sera, con una breve interruzione per mangiare. Solo chi sta abbastanza vicino va a casa di corsa e poi torna, gli altri mangiano qui. Quindi, praticamente undici, dodici ore di scuola. I giorni della settimana sono sette da noi. I giorni dell’anno sono 365. Negli anni bisestili sono 366. Non si fa vacanza. Mai, per nessun motivo, né a Pasqua, né a Natale! La domenica c’è la differenza che si va a messa, e poi non c’è nessun’altra differenza. La scuola è ininterrotta. In conclusione, un vostro anno scolastico è di 207 giorni con 724 ore. Tre mesi nostri d’estate sono mille ore, cioè un po’ più d’un anno scolastico vostro […] Questa situazione io capisco bene che a voi appaia esagerata, o paradossale, o feroce o malsana. Non so cosa ve ne parrà. Vi assicuro però che ai miei parrocchiani pare paradossale che la vostra scuola chiuda tutta l’estate, che la vostra scuola duri quattro ore, nelle quali la maestra sostiene che i ragazzi han bisogno di mezz’ora di ricreazione. È un’assurdità che vi fa apparire strani ai miei contadini. Gente che d’estate si leva prima del sole e va a letto tardi la sera, che considera il lavoro un dovere dei ragazzi. Per cui a tre anni badano i tacchini, a quattro anni badano i maiali, a cinque badano le pecore. Non l’ho inventato mica io che i contadini facciano sacrifici duri. Oltretutto pensate che in questa condizione è la maggioranza dell’umanità. Voi qui, con le vostre raffinate scuole, con tutte le paure che avete di sacrificare i ragazzi, siete la minoranza infima. Dietro a noi, c’è tutta l’Asia, tutta l’Africa, tutta l’America centrale e meridionale, tutto il mezzogiorno d’Italia, tutte le montagne del mondo. Sicché, sicuramente, l’80% dell’umanità sacrifica i ragazzi, li abitua a una vita durissima. Io sono schierato con questi”.

L’altro dice “Qualsiasi discorso su alternative radicali all’istruzione formale centrata su scuole perturba le nostre idee di società. Non importa quanto inefficienti le scuole siano nell’istruire la maggioranza delle persone, non importa quanto efficienti siano invece nel limitare l’accesso alle élite e non importa con quanta generosità facciano piovere sui membri di questa élite i loro benefici extra educativi – le scuole accrescono davvero il reddito nazionale. Esse formano i loro diplomati a una maggiore produttività. In una economia ai primi stadi di sviluppo verso una industrializzazione di tipo nordamericano, un diplomato è enormemente più produttivo di un marginale. Le scuole sono parte integrante di una società in cui una minoranza è sulla via di diventare talmente produttiva che la maggioranza deve essere istruita a farsi docile consumatrice. Pertanto la scolarizzazione – nelle più favorevoli delle circostanze – contribuisce a dividere la società in due gruppi: quelli così produttivi che le loro aspettative di incremento annuo del reddito personale si collocano molto al di là della media nazionale – e la schiacciante maggioranza il cui reddito aumenta pure, ma a un tasso decisamente inferiore. Questi tassi sono tassi composti, naturalmente, e allontanano sempre di più i due gruppi l’uno dall’altro. Innovazioni radicali nell’istruzione formale presuppongono cambiamenti radicali a livello politico, cambiamenti radicali nell’organizzazione della produzione e cambiamenti radicali nell’auto-rappresentazione dell’uomo come animale che ha bisogno di scuola. Lo si dimentica troppo spesso quando si propongono ambiziose riforme scolastiche, che poi falliscono a causa della struttura sociale che rimane la stessa”.

Non potrebbero risultare più diverse, le due voci di don Milani e Ivan Illich, che ho riportato qui. Ma anche, paradossalmente, più convergenti. In che senso convergenti? Rispondo subito: convergono nel considerare quella scolastica come una questione importante, ma non in assoluto, bensì nel rapporto di interazione che il sistema d’istruzione intrattiene con la società. Appurato questo aspetto comune dei due discorsi non è arduo cogliervi un’altra convergenza, quella che porta a dare un giudizio fortemente e negativamente critico delle pratiche scolastiche istituzionalizzate. In altri termini, sia dall’uno sia dall’altro brano traspaiono accenti apocalittici, coerenti con un’idea di crisi dell’istituzione scolastica che, proiettandosi al di là delle contingenze politiche e cronachistiche, intacca i livelli più profondi dell’esistenza collettiva.

Può la scuola curare le ferite di una società diseguale, può prendersene cura? Se sì, come? Se no, perché? Questi gli interrogativi sottostanti. Redatti nello stesso periodo storico, gli anni Sessanta del secolo scorso, i frammenti di scrittura che ho riportato hanno un ulteriore elemento in comune, e cioè la matrice religiosa. Ne sono autori due uomini di chiesa, colti nella fase ultima della loro missione sacerdotale: l’uno prossimo a morire, l’altro a deporre l’abito talare. L’uno e l’altro destinati a guadagnare fama imperitura in quanto autori di due libri aventi come oggetto proprio la scuola. Anche se, elemento di divergenza, peraltro di superficie, uno dei due non volle intestarselo come autore, proprio per non passare (ebbe a dire) come ‘uomo del libro’, mentre l’altro decise proprio di allontanarsi dal sacerdozio proprio per essere più libero di presentarsi e rappresentarsi come autore, ovvero ‘uomo del libro’.

Il titolo di questo mio intervento individua icasticamente le vie opposte delineate e praticate da don Milani e Ivan Illich, per dare una risposta concreta all’esigenza di democratizzare l’accesso alla riproduzione e produzione di sapere: iperscolarizzazione e descolarizzazione, appunto. Ciò significa, da una parte, lavorare a rinforzare il compito di opposizione da parte dell’istituzione scolastica nei confronti di una società divisa, dunque investire di più e meglio sulla necessità di fare della scuola una garanzia di riscatto sociale; dall’altra parte, prendere atto non solo dell’impossibilità di contribuire attraverso l’istituzione scolastica ad una effettiva  eguaglianza sociale, ma anche riconoscere i limiti e i pericoli del compito svolto delle istituzioni scolastiche, per quanto riformate, rispondente ad una sanzione in termini culturali, e non solo, delle diseguaglianze di partenza degli individui.

Si tratta di due posizioni estreme, che nessuno, oggi, a distanza di tanto tempo, si sentirebbe di condividere, almeno nella forma provocatoriamente ‘estrema’ con cui sono espresse. Ma sotto sotto, sia l’una che l’altra opzione continuano ad operare, dentro l’orizzonte dei discorsi che facciamo e ci facciamo sulla formazione. Fanno parte, per così dire, di un inconscio pedagogico comune. E vengono a galla soprattutto le volte che ci si pone il compito di ribadire (più raramente contestare) le scelte di fondo in ordine ai saperi scolastici, cioè ai contenuti degni di essere accolti e lavorati all’interno delle istituzioni, in quanto, si presume, sarebbero dotati di valore formativo.

Prendiamoli dunque, questi due nuclei di idee, come opzioni generali, di prospettiva culturale, all’interno di un rapporto tra scuola e società che non può non essere inscritto all’interno della logica della complessità (anche se sovente ce ne dimentichiamo), e misuriamone l’incidenza sui nostri pensieri attuali a proposito di scuola, sia quelli che teniamo sottobanco sia quelli che disponiamo sul tavolo.

Pensieri generali, intendo, di presa immediata, appartenenti al senso comune; non dunque pensieri riflessi, specialistici, del tipo di quelli prodotti dagli addetti ai lavori. Sì, perché di fatto i primi incidono sulla realtà ben di più e ben diversamente di quanto non fanno i secondi. Se non cambia il modo di intendere la scuola da parte della società, meglio: del corpaccione della società, la scuola è pressoché impossibile che cambi. Lo stesso e forse in misura più pronunciata si potrebbe dire dell’università.

Potrà capitare che, oggi come oggi, ci si senta più in sintonia con lo spirito sottostante all’una e meno con l’altra delle ipotesi, quella dell’iper o quella della de. Non ho difficoltà ad ammettere che, se proprio dobbiamo riconoscerci in una delle due icone, la nostra scelta (dove faccio coincidere con ‘nostra’ il senso comune tuttora diffuso) andrà a don Milani, mentre rispetto all’altra icona, quella di Illich, non è improprio ammettere che si provi un sentimento di disagio.

Ma non è questo il problema che intendo sollevare, qui. Piuttosto mi intriga, e, credo, dovrebbe intrigare tutti noi, porre (e inevitabilmente lasciare un po’ aperta) la questione del perché all’interno dei due ordini di pensiero di cui ho detto il consenso riconosciuto ad uno abbia comportato la drastica esclusione nei confronti dell’altro. Questo vale anche in direzione contraria, rispetto a quanto ho detto più su: se infatti non ci mettessimo nella prospettiva di ‘educatori scolastici’ (o accademici o anche famigliari), ma in quella, a suo modo legittima, di ‘educatori televisivi’ o di ‘educatori telematici’ (ce ne sono stati e ce ne sono ora, di generosi e seri, capaci di viaggiare su tracce e stili diversi da quelli appartenenti alla tradizione scolastica) diventerebbe meno arduo riconoscersi negli accenti di Illich.

Come dire che se si intende lavorare ad aggregare sapere e consapevolezza all’interno degli spazi e dei processi di flusso che qualificano l’esperienza mediale dell’individuo contemporaneo per prima cosa dovremmo mettere in discussione, se non addirittura rompere l’impalcatura stessa dei saperi scolastici, dunque la loro logica grammaticalistica, il loro confinarsi dentro una logica riproduttiva e statica, il loro diffidare di quanto sa di operatività, performance, realizzazione. Ecco allora che le due matrici tendono ad escludersi.

Ho detto che il tema dovrebbe intrigare tutti noi. Già nel passato avrebbe dovuto coinvolgerci, ma, colpevolmente, l’abbiamo rimosso. Non l’abbiamo fatto man mano che vedevamo emergere nel mondo che ci siamo abituati, noi senso comune, a etichettare come consumi, dei saperi non solo élitari ma di massa (dunque di prima e non di seconda battuta) che presentavano una grana e uno statuto profondamente diversi da quelli appartenenti alla tradizione accademica o scolastica, non fosse altro perché non si presentavano come subordinati né subordinabili ai codici della scrittura. Saperi segnati dalla presenza delle immagini soprattutto in movimento, dei suoni, delle azioni. Abbiamo creduto nel fantasma che ci eravamo a bell’a posta creati per dequalificarli e rimuoverli, cioè che rappresentassero un attentato all’alfabetismo e dunque alla scuola. Atteggiamento, questo, che ha prodotto un duplice indebolimento pedagogico: della scuola e della società.

Ora non possiamo più tenerlo lontano da noi, questo marchingegno concettuale, segnati come siamo da un annus horribilis che, lo vogliamo o no, rappresenta un riferimento, una sorta di ‘anno zero’, per qualsiasi discorso noi vogliamo imbastire e per qualunque azione vogliamo attuare sul corpo della formazione, scolastica come sociale.

E dunque, se per ragionarci assumiamo il punto di vista della scuola, intendendo questa come un soggetto che pensa e fa, non possiamo evitare di riconoscere che, in questi anni, l’opzione ‘ìper’ è stata dominante, sia pure in una versione ‘laica’ che peraltro ne ha ridimensionato e attenuato la vocazione escatologica originaria. Ciò ha comportato, almeno come finalità da perseguire, l’impegno a fornire più scuola, sia nel senso di un numero sempre più elevato di individui da coinvolgere sia in quello di un’offerta che rendesse più adeguata alla nuova eterogenea popolazione la qualità dell’azione didattica. Poco, pochissimo, quasi per nulla si è discusso del che cosa, cioè quale contenuto e perché portare dentro le scuole: non solo quale inclusione fosse necessaria, ma soprattutto quale eventuale esclusione, all’interno di un impianto epistemologico (fondamentalmente scrittorio) la cui matrice risale all’atto fondativo dell’istituzione, quando l’unico mezzo di comunicazione sociale era la stampa. Indubbiamente, comunque, un po’ tutti (apocalittici o integrati o ‘misti’) abbiamo operato per affermare i principi sottesi all’idea di una iperscuola, intendendo il sistema istituito di istruzione come un fondamentale e ineliminabile luogo di riscatto e dunque di salvezza per l’intera società.

Se invece assumiamo il punto di vista della società, intendendo anche questa come una figura dotata di una sua soggettività e autonomia di pensiero e di azione, e se, per intenderci, facciamo riferimento all’universo della comunicazione prodotto e riflesso dai media del Novecento (quelli di massa, come radio, cinema, televisione e quelli reticolari come il telefono e internet), sarà difficile che evitiamo di misurarci con l’idea che l’affermazione, che ne è conseguita, di modelli di esistenza e di conoscenza ampiamente diffusi, anche a livello molecolare, abbia contribuito a far maturare un’antropologia sostanzialmente diversa da quella inscritta nell’azione scolastica, e che da questo sia venuto un sostanziale indebolimento del fondamento di legittimità esclusiva tradizionalmente riconosciuto alla scuola.

Nei fatti i due movimenti, l’uno consacrato e l’altro demonizzato dalla cultura accademica ufficiale, hanno proceduto sempre più affiancati poggiando l’uno sulla debolezza e le carenze dell’altro, reali o immaginarie che fossero, e dunque mai smettendo di considerarsi, rispetto al concorrente, come il soggetto portatore dell’istanza culturale giusta: quella dell’elevazione spirituale (disinteressata), dalla parte della scuola ‘intellettuale’,  o quella del perfezionamento esistenziale (interessato), dalla parte della società ‘consumistica’. La logica della contrapposizione e del conflitto tra ‘iper’ e ‘de’ che ha permesso alle due pedagogie di prosperare ai danni dell’altra è anche il segno della loro debolezza. Cominciamo a capirlo ora che il Covid-19 è intervenuto a bloccare la corsa e ad azzerare, drammaticamente, i punteggi fin qui acquisiti.

Comunque si voglia intendere quel ch’è accaduto e che sta ancora accadendo, è veramente difficile sottrarsi all’idea che, improvvisamente, la filosofia di Illich abbia ‘tragicamente’ vinto: nemesi medica, descolarizzazione, biciclette sono le tre immagini che meglio rappresentano il nostro 2020/21, altrettanti titoli del sacerdote che volle farsi libro. Come uscire da questo vicolo cieco? Con ciò che, in altri tempi, si era soliti etichettare come ‘rottura epistemologica’. Semplice a dirsi, difficile a realizzarsi: riconoscere che le due polarità (iper e de) non vanno intese in senso manicheo ma come riflesso di identità individuali, comunque composite, fare i conti con la parte descolarizzante incistata dentro la cultura dell’iperscolarizzazione e con quella iperscolarizzante che alberga al fondo della cultura della descolarizzazione. Questo significa riuscire a far dialogare il don Milani e l’Ivan Illich che stanno dentro di noi, laici della scuola e del mondo, impegnandoci a ridefinire il senso dell’istruzione comune all’interno delle società descolarizzate e il senso della società della comunicazione dentro una logica di dialogo positivo e costruttivo che questa deve intrattenere con le istanze della scuola.