La scrittura e la storia: l’umanesimo di Graham Greene

Graham Greene, Il console onorario, tr. Alessandro Carrera, Sellerio, pp. 452, euro 15.00 stampa, euro 9,90 epub

Graham Greene appartiene a quella categoria di narratori per così dire giubilati dalla critica letteraria: essa ha preso atto del successo commerciale dei suoi romanzi, ne ha riconosciuto a malincuore l’indubbio talento e lo ha relegato nelle sue soffitte polverose. Non a caso, l’opera dello scrittore britannico di rado compare nelle reading list dei dipartimenti di letteratura inglese, ancor meno è oggetto di corsi monografici, e molti suoi libri sono fuori catalogo. Considerata la sopraffina arte narrativa dell’autore in questione, i temi e la profondità con cui sono affrontati, la costante qualità espressa in un sessantennio di carriera, ciò è spiegabile soltanto con l’atteggiamento miope e spocchioso tipico di certa critica nostrana, non soltanto accademica, verso quegli autori che si confrontano con generi considerati con sufficienza (thriller, spionaggio, poliziesco, romanzo d’avventura), e che magari hanno la ventura di beneficiare di un buon riscontro di pubblico. A ciò si aggiunga il pregiudizio ideologico di cui Greene fu oggetto da parte di una buona fetta del giornalismo culturale, che lo riteneva uno scrittore anti-americano, e il quadro della sua rimozione è completo.

Alla luce di ciò, il progetto editoriale intrapreso da Sellerio con la pubblicazione di dieci romanzi di Greene, a cominciare da Il console onorario, assume particolare rilievo, volto com’è alla riproposizione e alla riscoperta di un autore di notevole caratura.

L’opera si apre con la descrizione sensuosa e onirica di un uomo “assolutamente solo” davanti a un porticciolo al tramonto, in uno sperduto angolo dell’America latina, sulle rive di quel fiume Paraná che segna il confine tra Argentina e Paraguay. Siamo ai tempi del regime di Alfredo Stroessner (sì, proprio lui, il dittatore che accoglieva e proteggeva i criminali di guerra nazisti), e l’uomo è il giovane medico Eduardo Plarr, di padre inglese e madre argentina, il protagonista attraverso il cui sguardo si dipana una storia drammatica venata di tinte grottesche. Dopo le molli cadenze degli inizi, che rispecchiano i blandi ritmi sudamericani, vi è un’improvvisa accelerazione nella vita sonnolenta del protagonista, forzato a uscire dal torpore che lo avvolge riparandolo dal dolore che si porta dentro in seguito alla perdita del padre, inghiottito da un idealismo assoluto per il quale ha immolato la vita alla causa della libertà: il suo amico Charley Fortnum, console onorario britannico in quella remota località, viene rapito per sbaglio da un gruppo mal assortito di ribelli paraguaiani (dei “desperados”, li definisce Plarr, “un poeta fallito, un prete scomunicato, una pia donna e un uomo che piange”) che lo hanno scambiato per l’ambasciatore americano. La situazione precipita in uno stallo micidiale. La figura di Fortnum è irrilevante per i governi e gli apparati che decidono i destini umani, e i guerriglieri sono costretti a proseguire sino alle estreme conseguenze nel braccio di ferro venutosi a creare con il potere costituito. L’unico che tenterà di salvare l’uomo (mosso anche da un lancinante senso di colpa, essendo l’amante della moglie Clara, una ex prostituta che aspetta da lui un bambino, e per l’oscura proiezione della figura paterna rappresentata per lui da Fortnum) è proprio Plarr, che si aggira in quel mondo a lui incomprensibile, nella sua “permanente condizione di straniero”.

Attorno a questo dramma si muove una comunità descritta con sapidi tocchi, composta di personaggi memorabili (come il tormentatissimo padre Rivas, un ex prete che ha abbracciato la causa rivoluzionaria sviluppando una sua peculiare teologia, o Aquino, il poeta guerrigliero) che si esprimono con dialoghi fulminanti, mentre il racconto procede mantenendo sempre desta l’attenzione del lettore, con una prosa che fa tesoro dell’asciuttezza hemingwayana, forse appesantita a tratti da un eccesso di sentenziosità aforistica, ma arricchita da una costante vena d’ironia e dagli echi letterari della tradizione letteraria inglese: l’uso magistrale del simbolo e la profondità psicologica apprese da Conrad, James, Hardy, l’abilità di intrecciare le strutture narrative d’un Madox Ford e d’un Chesterton, la resa poetica dell’ambientazione esotica mutuata da Stevenson e da Kipling. E qui davvero i luoghi paiono essi stessi personaggi, descritti con originalissime analogie o con crudo realismo, come l’insondabile fiume Paraná, le vecchie e sfatte stanze d’albergo rifugio di esuli perenni, il barrio, sorta di favela popolata da un’umanità poverissima, dove si svolge la lunga, claustrofobica sequenza dello scontro finale, annunciata da una simbolica tempesta che rimanda al King Lear.

Greene lavorò a lungo, dal finire degli anni Sessanta agli inizi dei Settanta, a questo romanzo spiccatamente politico, uscito nel 1973. La trama risuona di fatti ed eventi storici contemporanei alla sua stesura, e narra con ammirevole lucidità il passaggio epocale che si andava delineando in quel periodo, con il fallimento dei moti rivoluzionari del guevarismo che avevano incendiato il Sud America, l’arretramento delle conquiste della teologia della liberazione, col suo progetto di emancipazione sociale e politica delle enormi masse di diseredati, e la presa del potere di feroci dittature, sostenute dal grande capitale che cominciava ad assumere sempre più distintamente i caratteri globali e totalitari oggi a noi noti. In queste pagine il tremendo iato tra poveri e ricchi è messo crudamente in scena, con laceranti spaccati di miseria e una partecipata attenzione per la condizione degli emarginati e diseredati, ritratti con grande dignità, figure che spiccano ancor più in quanto messe a contrasto con una borghesia fatua e predatrice.

Nel contesto di questa fosca ambientazione, modellata come un labirintico gioco di specchi e con complessi meccanismi a incastro che ne denotano la maestria narrativa, Greene sviluppa i macro-temi a lui cari, che nella sua travagliata esistenza è andato esplorando con sempre maggiore acribia: l’eterna lotta tra il bene e il male, l’inalienabile ambiguità umana e l’illusorietà di tracciare un confine netto tra giustizia e ingiustizia, il confronto-scontro tra l’Occidente e il resto del mondo. La dualità è appunto il segno distintivo del testo, già introdotta dall’epigrafe che reca un passo eloquente di Thomas Hardy: “Tutto si confonde, l’una e l’altra cosa, il bene nel male, la generosità in giustizia, la religione in politica”. Quello rappresentato è uno scenario di menzogne, di versioni ufficiali, di autoinganni, dove tutto raddoppia, si confonde, e dove la ricerca della verità, quella degli eventi come quella interiore, diviene ardua se non chimerica.

In un tale ambiguo universo, in cui l’unica certezza è l’inestricabile groviglio interiore di personaggi in perenne conflitto morale, si dipanano poi i micro-temi che caratterizzano e sostanziano le vicende narrate. Innanzitutto, la ricerca del padre, che tocca punte struggenti: “Sembra che viviamo tutti in compagnia di padri morti, vero?” dice Plarr all’amico León, il padre Rivas cui si accennava. “Padre” è parola ripetuta sino all’ossessione, tutti i personaggi risultano in un modo o nell’altro orfani alla deriva in una terra “troppo vasta per gli esseri umani”, un mondo di fedi, valori e ideali moribondi, che pure essi ricercano disperatamente per dare un senso alle proprie esistenze.

Parallelo a questo motivo, e ancor più pervasivo, v’è poi il tema dell’amore, svolto in tutte le sue declinazioni: erotico, filiale, per l’umanità, verso la divinità, con la paura e l’incapacità di riconoscere e accettare questo devastante sentimento. Il personaggio più fragile e scoperto in tal senso è proprio Plarr, per il quale esso è una responsabilità da cui rifuggire: “Oh, l’amore! Non è una parola inclusa nel mio vocabolario!” confessa a un suo paziente, lo scrittore Saavedra, negando a se stesso ciò che prova per Clara.

E se il libro si può leggere come un viaggio di scoperta e di rivelazione, pur se parziale, di questo sentimento che determina le scelte degli esseri umani, anche loro malgrado, sarà proprio Fortnum, il personaggio deriso e sottovalutato da tutti, a cogliere questa verità e a svelarla al lettore distratto dall’incalzare della storia, in un dialogo illuminante con un funzionario d’ambasciata. Il romanzo termina quindi con uno dei sorprendenti ribaltamenti di prospettiva tipici dell’arte di Greene, segnalato proprio dall’assunzione nella parte conclusiva del romanzo del punto di vista di Fortnum, il fragile beone che infine dimostra una somma dignità e una notevole saggezza: “Non c’è niente di male nell’amore. Non importa molto con chi. Ci si finisce coinvolti. Si finisce rapiti”.

Con la sua capacità di affrontare con acume e sguardo penetrante i temi universali dell’amore, della fede, della solitudine esistenziale, della fratellanza, della giustizia sociale, dimostrando una peculiare capacità di cimentarsi con la realtà del male, Greene ci appare in definitiva scrittore profondamente umanista. Ma la sua è un’arte ancor più vasta. Come dimostra in modo lampante questo romanzo, egli è stato un lucido cronista del suo tempo, di più, un indagatore della storia, delle macrostrutture politiche ed economiche di cui essa è intessuta, in grado di assumere posizioni severamente critiche nei confronti degli imperialismi occidentali, che il corso della storia hanno a lungo determinato. E ancora oggi, il tema a lui caro del confronto-scontro tra etnie e culture diverse rimane di cogente attualità.

Dunque, cosa chiedere di più a uno scrittore?

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