Cercando il mio nome, romanzo di esordio di Carmen Barbieri, rappresenta una lieta sorpresa nel panorama attuale della letteratura del nostro paese. Già avviata alla scrittura grazie a tante collaborazioni con blog e riviste online, Barbieri aggiunge alla sua capacità espressiva particolari competenze linguistiche ed esperienza nel lavoro teatrale. L’insieme di tutto questo fa del libro un sistema complesso e articolato in cui si fondono dolore e ironia, vita vera, sogno, immagini e religione.
La protagonista è Anna, una giovane donna che alla tenera età di diciannove anni perde l’amato padre ucciso da un minuscolo puntino nella pelle. Un melanoma che non lascia scampo e che impressiona per la sua apparente insignificanza. Da quel momento, Anna inizia un cammino di allontanamento dalla sua vita di ragazza, protetta dalla figura paterna che garantiva guida e sicurezza, e si apre al mondo. Lascia Napoli, dove ha vissuto fino a quel momento, e si trasferisce a Roma.
Anna è accompagnata da molte considerazioni sulla vita e sulla morte. Fa spesso riferimento a immagini e situazioni religiose e trasferisce il lettore nella cultura della religiosità popolare, con attenzione rivolta particolarmente al sud d’Italia. I “morti sono vivi”: la celebrazione del distacco dalla vita è accompagnata da riti che, per esempio, sposano la preghiera e il ricordo con la preparazione e il consumo di cibo.
A prevalere è sempre la forza della quotidianità. Già in esergo si cita un verso dell’Apocalisse (1,11) che dice: “quello che vedi, scrivilo in un libro”. Questo attua Carmen Barbieri, facendo appello alle sue conoscenze linguistiche e alla sua capacità di far assumere un ruolo teatrale (da commedia tragica o talvolta ironica) a oggetti e persone.
Persa la figura paterna naturale, Anna cade ingenuamente nelle grinfie di una figura paterna “spirituale”, un Prete Nero che la indurrà a lavorare in una sorta di strip club dove potrà “contare” sulla sua bellezza.
Qui la narrazione tende a cambiare passo. Dopo le prime lusinghe, Anna si rende conto di dove è capitata. Ma ha bisogno di denaro per mantenersi a Roma: cambia nome in Bube e si addentra in un mondo laido in cui il corpo, proprio e altrui, è vissuto in modo freddo e strumentale. In questo modo vivrà momenti di umiliazione, proverà anche fugaci gratificazioni, ma Anna-Bube non si perderà, ancorata com’è al ricordo paterno e a una forza interiore che sente crescere dentro di sé. Anna sceglie di non tornare a Napoli perché significherebbe “sbattere i denti contro la ringhiera” dell’assenza del padre.
D’altra parte, quando inizia a praticare la pole dance, Anna è quasi spavalda. Rifiuta aiuti economici dalla nonna che vorrebbe sostenerla e si mette a lavorare di buona lena realizzando le sei diverse figure che servono a stare in equilibrio sulla pertica. Non ha paura. Di sé racconta che “uno strato di ruggine brilla su tutto il corpo mentre mi sospendo intorno al palo, emerge come fiato dalla pelle incoerente nella quale sento che mi hai lasciata. L’armatura rossastra ossida la nudità fino a farla scomparire”. Il ricordo, l’amore per il padre, possono difenderla da ogni difficoltà. La nudità sembra non esistere più perché c’è una protezione interiore. Naturalmente non sarà sempre così, ma progressivamente Anna-Bube troverà se stessa, il suo corpo, la sua anima e il suo nome.
In un italiano impreziosito da frasi dialettali in napoletano e in romanesco, Carmen Barbieri ci consegna un libro quanto mai intimo e molto dolente. E ci offre la possibilità di seguire la vita di una donna, una giovane donna, in cerca della sua collocazione nel mondo rendendosi conto che è più facile stabilire una distanza con le persone presenti che con quelle assenti.