C
hi è Alasdair Gray, che secondo Anthony Burgess, l’autore di Arancia meccanica, sarebbe il primo romanziere scozzese dopo Sir Walter Scott?
Gray nasce nel 1934 a Glasgow, e dopo gli studi si dedica alla carriera artistica: è autore di una vasta serie di murales che affrescano locali pubblici quali chiese, sinagoghe, teatri, pub; molte delle opere meno recenti sono andate distrutte in ristrutturazioni successive, ma a partire dal 2001 l’autore si è incaricato di restaurarne alcuni sopravvissuti.
Trovo notevole il fatto che, dopo un lungo curriculum nelle arti figurative, all’età di 45 anni esordisca come scrittore nella narrativa lunga, dopo che ha lavorato per un quarto di secolo al suo Lanark, che secondo The Observer è il “probabilmente il più grande romanzo del secolo”. Il romanzo ha una sequenza cronologica articolata: Libro 3, Prologo, Libro 1, Interludio, Libro 2, Libro 4, Epilogo, e poi ancora gli ultimi quattro capitoli. I libri 1 e 2 sono ambientati a Glasgow, la maggiore città scozzese, dove Gray è nato e ha vissuto.
Lanark è il protagonista del romanzo, un giovane che arriva in treno in una città sconosciuta, e che non ricordando il proprio nome decide di chiamarsi come la città vista in una pubblicità turistica in treno.
La città in cui Lanark arriva senza ricordi è un luogo squallido e angosciante, che non vede mai la luce del sole. È “costruita in pietra, con appartamenti bui ed edifici pubblici con fregi, una città a pianta quadrata e tram elettrici.” Il nome stesso della città sembra un segreto, i suoi abitanti vivono del sussidio di disoccupazione: uno specchio deformato, degradato di Glasgow. Forse si trova in un universo parallelo al nostro. Solo alla fine del primo libro scopriamo che la città si chiama Unthank, e che Lanark è arrivato qui il 3 ottobre 1956.
Le persone che il protagonista incontra a Unthank sono apatiche, rassegnate, egoiste. Pare che la città possa essere bersaglio di attacchi con armi nucleari. Ogni tanto qualche abitante scompare nel nulla, tanto che ci sono diversi appartamenti vuoti. Lanark si ritrova in un gruppo di giovani che si autodefiniscono Élite; una ragazza gli provoca un déja vu, le dice d’impulso: “Io ti ho uccisa, non è vero?”
Lanark conosce una donna di nome Rima, che lo accoglie in casa sua. Viene aggredito da una misteriosa infermità, la dragonite, un orrendo eritema che gli trasforma la pelle in una corazza di rettile. Entrato volontariamente in un passaggio spaziotemporale simile alla trachea di un essere vivente, sinisce in un nosocomio sotterraneo. Invece di venire curato, si ritrova incaricato della guarigione di una paziente affetta a sua volta da una micidiale dragonite che le deforma i lineamenti, sotto i quali scopre esserci Rima. Da lei apprende che il suo vero nome non è Lanark bensì Duncan Thaw. Un “oracolo” presente nell’ospedale sotterraneo gli ricorda la sua vita precedente, a Glasgow.
I libri 1 e 2 raccontano dell’infanzia e dell’adolescenza di Duncan nel “nostro” universo: una storia realistica e parzialmente autobiografica che ricalca la vita dell’autore: lo sfollamento durante la guerra mondiale, le infatuazioni per le compagne di scuola e le conseguenti delusioni, le preoccupazioni religiose, gli studi artistici, i primi dipinti murali, le imbarazzanti eruzioni cutanee di origine psicosomatica che danneggiano la sua vita sociale, e che dopo un crollo nervoso lo conducono a una lungodegenza in un ospedale, riflesso reale di quello di Unthank.
Le persone che Lanark ha conosciuto nell’adolescenza a Glasgow e gli avvenimenti che ha vissuto hanno un corrispettivo vile e deturpato in Unthank. Ha davvero ucciso una donna? Nel libro 4, Rima e Lanark escono dall’ospedale e raggiungono Unthank attraverso un “territorio intercalendariale” in cui non vige il tempo normale. Sulla città grava un’avvisaglia di distruzione totale. Tutti sembrano preoccupati da una concreta minaccia che chiamano Creatura: “una cospirazione che possiede e condiziona tutto per profitto”, un complotto capitalista globale contro la salute dell’umanità.
“Questo è l’inferno” dice Lanark/Duncan Thaw, consapevole del deterioramento della propria vita, dell’insensatezza degli eventi, del sordido squallore che lo circonda.
Se Unthank non è l’inferno, è quanto meno una distopia in cui il capitalismo si è sviluppato senza alcun freno, e le multinazionali hanno un potere incontrastato. Ammette a un certo punto uno dei protagonisti: “Nessuna regione delle nostre dimensioni ha altrettanta disoccupazione, altrettante punizioni corporali nelle scuole, altrettanti bambini presi in carico dallo stato, altrettanto alcolismo, altrettanti adulti in prigione o altrettanta carenza di alloggi.”
“Voglio scrivere una moderna Divina Commedia con illustrazioni nello stile di William Blake,” dice Lanark all’inizio del capitolo 20. Sembra di sentire la voce dell’autore: perché questo romanzo lungo, articolato e angosciante racconta una discesa all’inferno, un inferno terreno fatto di buone intenzioni fraintese, sentimenti respinti, rapporti interpersonali deformati come in un incubo kafkiano; non per nulla è stato definito dalla New York Times Bok Review “la Divina Commedia del cripto-calvinismo anglosassone”. (Tra l’altro, Alasdair Gray è autore di una traduzione inglese della Commedia dantesca, con illustrazioni di suo pugno).
Come molti capolavori del postmoderno, il libro è decisamente eccentrico, permeato di dark humour, ossessionato dal fantasma dell’ingiustizia sociale (Alasdair Gray è un fervente socialista). E nella tradizione postmoderna della voce narrante che si rivolge direttamente al lettore, l’Epilogo rivela la natura di artefatto estetico del romanzo, e esplicita l’intenzione dell’autore: “Il miglior trucco di chi complotta è mostrare alla propria audience un modello in movimento del mondo così com’è, e il mondo non si muove verso maggiore libertà, eguaglianza e fraternità. Quindi ho accettato il fatto che il mio modello di mondo dovesse essere senza speranza. Sapevo anche che sarebbe stato piccolo borghese, industriale e scozzese.”
Scrive Enrico Terrinoni nella prefazione a Povere creature!, edizione Safarà: “La Scozia, almeno quella moderna, dipende in maniera incredibilmente reticolare dalla mappatura che ne fa Gray nelle sue varie opere, realiste o immaginarie che siano”. Questo avviene, diciamo, “in negativo” in Lanark, con la descrizione non tanto del suo contrario, quanto di una configurazione atrocemente distorta, che ne esalta gli aspetti meno attraenti, un’anti-utopia di desolazione e solitudine che immagina la Scozia senza Welfare State. Ma avviene anche in tutti i libri successivi, il primo dei quali, scritto e pubblicato sull’onda del successo di Lanark, è 1982 Janine. Nella prefazione a questo romanzo scrive ancora Terrinoni:
È la naturale prosecuzione di Lanark: arriva dove l’altro grande romanzo non era potuto arrivare, in un girone infernale traviato, che lentamente si dirime in nuovi svolgimenti in cui il realismo, ora come allora, è tale solo in virtù del fatto di sapersi continuamente negare. Abbiamo in questo romanzo il riapparire trasfigurato della consapevolezza di un Borges, secondo cui nella fiction non esiste e non può esistere alcuna realtà.
Occorre tenere presente questo, perché Janine ha invece l’aspetto nominale di una storia realistica, e la forma apparente di un flusso di coscienza.
Il romanzo è diviso abbastanza nettamente in due: i primi undici capitoli hanno la funzione di prologo nei confronti del dodicesimo, il più lungo, che da solo occupa un terzo della lunghezza del libro; presentano il protagonista con il suo carattere, e anticipano i personaggi e le situazioni.
Senza dubbio è il romanzo più divisivo di Gray. La prima parte è costruita in parte sui ricordi e in parte sulle fantasie sessuali di un professionista tecnico scozzese; leggiamo la sua solitudine, i suoi tragici problemi relazionali e i suoi fallimenti, e soprattutto le sue fantasie sessuali. Queste ruotano intorno a situazioni di costrizione e feticismo descritte senza filtro, non nel dettaglio fisico, ma nello squallore disperato della miseria creativa. Protagoniste di queste fantasticherie sono quattro sono le figure femminili con caratteri non intercambiabili: Janine è solo una di queste, apparentemente senza preminenza sulle altre.
A queste visioni erotiche sono alternate riflessioni personali, e anche politiche; non sono mai banali né respingenti. Il lettore non riesce a farsi un’opinione definitiva sul protagonista, Jock McLeish, che si proclama conservatore ma su determinati argomenti, come la minaccia nucleare che grava sul mondo come una spada di Damocle, ha idee chiaramente di sinistra. Di sicuro non ispira una smaccata simpatia; questo, almeno, fino al capitolo 12, ampiamente anticipato durante le pagine precedenti. Qui Jock rievoca una storia di trent’ani prima, quando nel 1952 incontrò la donna che poi avrebbe sposato, Helen.
Questa parte, che è la più bella, la più sentita, la vera ragione del romanzo, è prettamente autobiografica. Alasdair Gray conobbe la prima moglie, la danese Inge Sorenson, al festival di Edimburgo, e si sposarono poco dopo. Uno dei personaggi minori di Janine, il genio delle riparazioni Alan, è ispirato al migliore amico di Gray, Alan Fletcher appunto; Fletcher morì giovane, cadendo dalla finestra di un ostello della gioventù in Italia, il personaggio di Janine subisce la stessa sorte, scivolando dal tetto di un capannone. Per inciso, anche il personaggio di Aitken Drummond in Lanark è ispirato a Fletcher.
Aalasdair Gray indicò sempre 1982 Janine come favorito tra i propri libri, forse proprio per questo carattere autobiografico, forse per il lavoro linguistico-sintattico-strutturale che è riuscito alla perfezione. Jock è un anti-eroe: l’autore non ci risparmia nessuno dei suoi pensieri, anche il più imbarazzante, nessuna impietosa auto-analisi, finché al lettore non rimane che palpitare e soffrire con lui, sapendo in anticipo gli errori che commetterà, e il guasto che arrecheranno alla sua vita nei trent’anni a venire.
Il grande successo del film di Yorgos Lanthimos dell’anno scorso, con il Leone d’Oro a Venezia, ha contribuito a dare visibilità mondiale alla letteratura di Alasdair Gray; Safarà editore ha cavalcato l’onda favorevole, rilanciando le opere in catalogo, e ne tradurrà di nuove in futuro.
Povere creature! è in catalogo dal 2023. A dire il vero, era già uscito due volte in italiano, con la stessa traduzione di Sara Caraffini ma con titoli diversi: Poveracci! (1994) e Vita e misteri della prima donna medico d’Inghilterra, 1999, entrambe per Marcos y Marcos.
Il romanzo è piuttosto diverso dalla precedente produzione di Gray, benché animato dallo stesso spirito corrosivo. Potremmo vederlo come una rivisitazione moderna di Frankenstein di Mary Shelley, o come il pastiche postmoderno di un romanzo vittoriano. La prima cosa che si nota è la struttura della trama, o meglio la de-struttura, che è una delle caratteristiche dell’autore scozzese fino dagli esordi. Povere creature! è costruito come le scatole cinesi, o come una matrioska, in modo da mascherare sino all’ultimo capitolo la rivelazione finale sul significato del testo — ammesso, s’intende, che esista una verità oggettiva.
Nel prologo, intitolato Introduzione, Gray sostiene di aver ricevuto da un amico una serie di documenti rinvenuti in un pacco sigillato accanto a un bidone dei rifiuti, con la scritta “da non aprirsi prima dell’agosto 1974”. All’interno, un libro autopubblicato nel 1909 in tipografia, e una lunga lettera. Povere creature! sarebbe la riproduzione di questo materiale: è dunque un romanzo di finti apocrifi, come Frankenstein d’altronde.
Il libro a stampa contiene le memorie di Archibald McCandless, funzionario pubblico scozzese: la trama del film ricalca questa prima parte.
Nella seconda metà dell’Ottocento, dunque in piena epoca vittoriana, McCandless frequenta all’università di Glasgow i corsi di medicina e fisiologia dell’eccentrico professor Baxter. Il docente lo invita a casa propria come assistente, e qui lo studente si imbatte in una strana creatura: una giovane donna avvenente di nome Belle, con il livello mentale di una bambina di pochi anni, una scarsa padronanza della lingua e nessun controllo sulle proprie azioni. McCandless naturalmente se ne invaghisce, e la sua infatuazione non crolla anche quando scopre che Belle è una creatura del dottore: una giovane annegata nel fiume Clyde, nel cui cranio ha trapiantato il cervello di un neonato.
Lo scontro tra la rigida etichetta vittoriana e una femmina umana attraente e senza le inibizioni dell’educazione vittoriana è totale. Come racconta perfettamente il film, seppure abbreviando la trama e saltando alcuni episodi, il mancato condizionamento morale e soprattutto sessuale di Belle provoca effetti esilaranti, sarcastici, che mettono alla berlina le nostre concezioni etiche e sociali. Senza rivelare la trama, dirò soltanto che Belle viene trascinata in un’odissea attraverso il Mediterraneo e l’Europa: il bagaglio di esperienze per lei nuove non smorza le sue attitudini, che sembrano fatte apposta per destare scandalo a causa della sua mancanza di inibizioni.
Il film è un Bildungsroman, un romanzo di formazione; il libro invece sposta il baricentro sulla critica sociale, su un amaro sarcasmo, su temi politici. Il film è stato impropriamente etichettato come “manifesto femminista”, mentre questo è molto più vero per il romanzo: femminista, antidogmatico, critico con la borghesia, anche socialista (non dimentichiamo che Alasdair Gray, oltre che indipendentista, era anche un socialista di sinistra, ostile alle politiche laburiste).
Il libro, dunque, va oltre il film. Le memorie di McCandless già contengono precisazioni sui fatti, a opera di Wedderburn, l’uomo con cui Belle fugge da Glasgow (notare la trasparenza del nome: wedder, colei che si sposa, e burn, bruciare); queste precisazioni smentiscono alcune impressioni di McCandless; ma è soprattutto la lunga lettera della medesima Bella Baxter che rovescia completamente la prospettiva del racconto, trasformando la trama in scatole di verità successive, una più grande dell’altra, sovrastrutture che smantellano il punto di vista, rovesciandolo in una direzione inedita. Per finire, negli ultimi capitoli Gray stesso riprende la parola, e offre un resoconto della sua ricerca di una Verità con la maiuscola, sulla base di documenti obiettivi.
Tutto inventato, naturalmente, tutto apocrifo dell’autore con una perizia, un gusto per la ricostruzione storica e sociale che lascia il lettore con un meraviglioso ricordo della lettura.