Appena toccata, nell’opera, una compiutezza, una perfezione, appena svelato compiutamente un segreto, appena data perfetta forma, e cioè rivelazione, a un mistero – nell’ordine della conoscenza o, per dirla approssimativamente, della bellezza: nella scienza o nella letteratura o nell’arte – appena dopo è la morte.
Leonardo Sciascia, La scomparsa di Majorana (1975)
Quando nel 1963 Einaudi pubblica il Consiglio d’Egitto, Leonardo Sciascia ha svolto molti lavori – impiegato del consorzio agrario della nativa Racalmuto, in provincia di Caltanissetta, maestro elementare, impiegato del Ministero dell’Istruzione – e ha pubblicato numerosi testi – poesie, racconti e un romanzo – ed è già stimato (con sospetto) da personaggi del mondo letterario quali Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini. Nel 1961, era uscito, sempre per Einaudi, il suo primo romanzo: Il giorno della civetta: giallo atipico, fortemente radicato nella Sicilia e nell’Italia dell’epoca, che già lascia emergere il groviglio di questioni intorno alle quali non smetterà più di arrovellarsi: Storia e verità, legalità e giustizia, comunità umane e relazioni di potere in tutte le loro sfaccettature.
Sciascia è impregnato di letture e culture dell’illuminismo, ne mima, riconoscendosi, l’ideologia profonda: è un razionalista libertario, misurato e preciso. Sin dagli esordi, la scrittura letteraria è per lui strumento di conoscenza: ogni testo un progetto di scomposizione, ricomposizione e comprensione – nel doppio significato di facoltà intellettuale e raccolta – della realtà.
Il benedettino passò un mazzetto di penne variopinte sul taglio del libro, dal faccione tondo soffiò come il dio dei venti delle carte nautiche a disperdere la nera polvere, lo aprì con un ribrezzo che nella circostanza apparve delicatezza, trepidazione. Per la luce che cadeva obliqua dall’alta finestra, sul foglio color sabbia i caratteri presero rilievo: un grottesco drappello di formiche nere spiaccicato, secco. Sua eccellenza Abdallah Mohamed ben Olman si chinò su quei segni, il suo occhio abitualmente languido, stracco, annoiato era diventato vivo ed acuto. Si rialzò un momento dopo, a frugarsi con la destra sotto la giamberga: tirò fuori una lente montata, oro e pietre verdi, a fingerla fiore o frutto su esile tralcio.
«Ruscello congelato» disse mostrandola. Sorrideva: ché aveva citato Ibn Hamdis, poeta siciliano, per omaggio agli ospiti. Ma, tranne don Giuseppe Vella, nessuno sapeva l’arabo: e don Giuseppe non era in grado di cogliere il gentile significato che sua eccellenza aveva voluto dare alla citazione, né di capire che si trattava di una citazione.
Così si apre Il Consiglio d’Egitto: Abdallah Mohamed ben Olman, ambasciatore del Marocco, è a Palermo per un problema di navigazione. Siamo nel dicembre 1782. Sin dall’incipit, Sciascia ci pone davanti al grande laboratorio – di scrittura e di racconto – che, in sostanza, racchiude l’intera vicenda: la polvere, le carte, le penne, le parole che si animano come un “drappello di formiche”, la traduzione, l’incomprensione e l’ironia.
Quando ben Olman giunge a Palermo quasi nessuno parla più l’arabo in Sicilia – che pure era stata araba e islamica dal IX all’XI secolo e anche abitata da notevoli poeti quali Ibn Hamdis, appunto – e così, il Vicerè Caracciolo si affida all’abate maltese Giuseppe Vella: l’unico che ha fama di conoscere l’arabo in città. Vella ha il compito di fare da guida all’ambasciatore fra i tesori arabi di Palermo, insieme a monsignor Airoldi che mostrerà all’ospite un codice manoscritto erroneamente ritenuto pregiato, trattandosi, invece, di una banale storia della vita di Maometto. Tuttavia, Airoldi conferisce a Vella il compito di tradurre il codice: Vella lo slega e lo rimonta senza un ordine logico ma soprattutto, lo riscrive, lo modifica, inventa una neolingua arabo-sicula. In una parola: corrompe:
E poi su ogni pagina, passata di colla in colore, ecco che con abilissima spatola distendeva l’aereo foglio d’oro, a darle patina uniforme per cui non si potesse più distinguere l’inchiostro nuovo dall’antico. E dopo questo lavoro linguistico e di delicata manualità, imprendeva a svolgerne un altro in cui studio e fantasia lo impegnavano fino allo stremo: la creazione dal nulla o uasi dell’intera storia dei musulmani di Sicilia.
La narrazione segue minuziosamente la laboriosa falsificazione dell’abate fino a quando, spinto dalle riforme del catasto che avrebbero fatto aumentare le tasse per la nobiltà palermitana, pensa di scrivere un intero codice dal nulla, che chiamerà “Consiglio d’Egitto”: lì, l’intera storia delle proprietà terriere di Sicilia viene reinventata, a uso e consumo del Viceré e delle sue riforme. Vella ci viene raccontato letteralmente eccitato: più lavora, traduce, scrive, inventa più cresce la sua smania: che è smania creatrice ma, anche, smania di potere, un potere che risiede nella lingua e nella creazione di storie, nella possibilità di affondare letteralmente le mani nelle relazioni di potere interne alle classi dirigenti le quali adesso cercano, adulano l’abate, provando a ingraziarsi le sue simpatie. Un valido alleato di Vella e del viceré Caracciolo è l’avvocato Francesco Paolo Di Blasi: di idee profondamente illuministe, convinto che nella congiuntura delle riforme dall’alto e del lavoro dell’abate, si possano introdurre anche in Sicilia le idee dell’89 francese e che, per questo, trama nell’ombra.
Lentamente ma inesorabilmente, il testo si srotola verso un finale nel quale la scoperta delle trame di Di Blasi è il controcanto della scoperta dell’impostura di Vella che anzi, dopo aver subito un confronto con un filologo nordeuropeo e le perquisizioni della guardie mandate del nuovo viceré Caramanico, dopo la morte di Caracciolo, ormai quasi scoperto, si autodenuncia. E si tratta di una rivelazione che è un piccolo, personale trionfo: per un momento, il mediocre abate Vella, sostanzialmente descritto come un giocatore del lotto e un millantatore, sperimenta la potenza liberatoria della sua opera falsificatrice, l’affondo sociale portato dal prodotto narrativo della sua fantasia. Perché in fondo, spiegava l’abate, “il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un’impostura e che c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri”. E l’invenzione è l’inesauribile lavoro della letteratura: l’intero romanzo, del resto, appare come una grande metafora della scrittura letteraria. Ma invenzioni e trame costeranno care.
Di Blasi passerà attraverso un processo farsa e vari gradi di tortura, per estorcergli confessioni che non arriveranno mai. Il testo indugia in dettaglio sia sul rapidissimo iter giudiziario sia sui supplizi subiti dall’avvocato palermitano. E qui, Sciascia intreccia abilmente i suoi ideali libertari e antigiustizialisti, la sua incrollabile fede illuminista, le sue letture di Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764), Pietro Verri (Osservazioni sulla tortura, 1777) e del Manzoni della Storia della colonna infame (1840): il clamoroso errore giudiziario, la violenza del potere per tenere a bada i fermenti dal basso, i possibili disordini. Significativamente, la scoperta di quell’errore avverrà pochi anni prima di quel 1782 scelto come inizio del Consiglio.
“Il dolore colava nella sua mente come inchiostro, ad accecarla”, scrive Sciascia raccontando delle torture inflitte a Di Blasi:
Si tolse le scarpe: e il sollievo che ne ebbe fu come il respiro di chi emerge dall’acqua a prender forza per rituffarvisi, ché ora bisognava togliere le calze, dal sangue dal pus aggrumate, ai piedi; toglierle di colpo, con terribile decisione della volontà e della mano.
I giudici gli voltarono le spalle, per non vedere fecero finta di consultarsi tra loro. Persino gli sbirri volsero altrove gli occhi: alle finestre, al soffitto. Quando tornarono a guardarlo, Di Blasi non aveva più le calze, i suoi piedi colavano un verdastro glutine.
«Sbrighiamoci» disse uno dei giudici: il lezzo di quel marcio, mescolandosi all’odore di lardo squagliato, gli dava il voltastomaco.
E nell’orrore – dove sapientemente il gotico manzoniano sembra sposare l’horror novecentesco – Sciascia non rinuncia al grottesco:
Quel greve odore di cucina nella camera di tortura un po’ lo distraeva dal feroce dolore. C’era qualcosa di grottesco, di ridicolo, in quegli uomini, sbirri e giudici, che si muovevano intorno al lardo che squagliava: così come in cucina le donne, all’ultima scanna del porco, preparano la sugna. Per un momento divagò nel ricordo di quando, ragazzo, si aggirava in cucina, nei giorni in cui si preparava la sugna, per mangiare i siccioli di cui era ghiotto
E qui compare anche una breve ma potentissima digressione del narratore onnisciente, contemporaneo del lettore e della lettrice che, in parentesi, si concede un agghiacciante commento sul fatto che se solo Di Blasi torturato “avesse avuto il presentimento che in quell’avvenire luminoso popoli interi si sarebbero votati a torturarne altri; che uomini pieni di cultura e di musica, esemplari dell’amore familiare e rispettosi degli animali, avrebbero distrutto milioni di altri esseri umani”, se solo l’avesse saputo avrebbe forse messo in questione le sue progressive idee illuministe.
Impossibile non notare che il romanzo sia del tutto dissonante – come pure altre opere italiane dell’epoca – rispetto al clima ottimistico del Boom economico che si va dispiegando in Italia e in Europa dove, la Guerra fredda sancita ufficialmente dall’inizio della costruzione del Muro di Berlino nel 1961, sembra fare da cornice politica e strategica alla crescita economica – a Ovest – e al lento stabilizzarsi delle strutture politico-economiche della neonata Comunità europea. È come se Sciascia ne stesse scoperchiando il lato oscuro, il terribile rovescio e tutte le contraddizioni che emergeranno con forza proprio tra alla fine del Boom, dal 1969 della Strage di Piazza Fontana al 1984 della bomba sul Rapido 904 sull’Appennino tra Firenze e Bologna, in anni che segnano l’ingresso dell’Italia e dell’Europa nella lunga fase della politica cosiddetta post-ideologica. Sciascia, del resto, a cavallo del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro – fece parte della Commissione parlamentare di inchiesta – non smise mai di predicare una giustizia giusta e non emergenziale né votata alla vendetta e alla tortura anche contro i terroristi, neri o rossi che fossero. In un intervento parlamentare del 1979 sostenne che “Leggi speciali e poteri più forti fanno demagogia e sono, oltre che inutili, ovviamente pericolosi per noi cittadini e per la polizia”. Per tutto questo fu sostanzialmente accusato di collusione e gli fu attribuita la famosa frase “né con lo Stato né con le BR” e, prendendo la parola alla Camera nel 1982, affermò che “non si converge assolutamente con il terrorismo quando si agita il problema della tortura”.
Con una scrittura ruvida, riflessiva e periodicamente scandita da pause e digressioni che aggiungono dettagli, nomi, squarci non immediatamente significativi, il romanzo formula ipotesi, alludendo continuamente alla presenza pesantissima di non detti decisivi.
È una costruzione linguistica che a tratti chiede di essere riletta, ponderata, che si alterna a brevi momenti di lucida linearità descrittiva nei quali contesti e personaggi appaiono illuminati. E sebbene il romanzo risulti complessivamente omogeneo dal punto di vista linguistico, proprio nelle crepe tra una scrittura tortuosa ad una più aperta, emerge la stoffa dei generi letterari cuciti insieme dall’autore siciliano: il romanzo storico e il poliziesco, il romanzo d’inchiesta e l’apologo.
L’apparato allegorico del romanzo si presenta oggi ancora più potente, forse più di quanto non lo fosse cinquantasei anni fa. Una nave sbarcata sulle coste siciliane e i rapporti tra Europa e mondo arabo e islamico, per esempio, tematizzano la posizione dell’Italia nel Mediterraneo e ne mostrano la Sicilia come suo avamposto, ricordandoci che al tempo del Consiglio d’Egitto l’arabo tornava in Sicilia, dove era stata una lingua dominante e che i rapporti tra costa nordafricana, penisola italiana e Malta sono rapporti secolari e non certamente rapporti emergenziali dettati dall’agenda delle migrazioni di oggi.
Le complesse articolazioni sociali, culturali e di potere – proprio mentre in Francia sta per scoppiare la Rivoluzione dell’89 – raccontano al lettore e alle lettrici di oggi, moderni e disincantati, perché in Italia le nebbie che circondano la verità non si diradino mai e la realtà ci venga raccontata senza alcuna profondità storica.
E questo, in fondo, ci fa anche pensare a quanto manchi una figura di intellettuale come Sciascia: rigoroso – al limite del pedante – e sempre tormentato dal dubbio. Verrebbe da chiedersi cosa avrebbe detto, fatto e scritto davanti ai corpi martoriati dalla tortura dei militanti no global a Genova nel 2001, o a quelli straziati fino alla morte di Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi o Giulio Regeni. Come avrebbe raccontato, insomma, questi nostri tempi sempre più complessi, mentre assistiamo al progressivo deterioramento delle qualità intellettive, intellettuali e morali delle classi politiche e dirigenti, davanti alle quali persino l’abate Vella, in fondo, ci appare come un intellettuale lucido. Il protagonista cinico e suo malgrado spregiudicato del Consiglio d’Egitto, infatti, scopre il potere di reinvenzione dell’immaginario che risiede nelle competenze linguistiche e traduttive derivanti dall’identità e dalla biografia culturale che ciascuno si porta dietro e come esse possano rimettere in gioco relazioni politiche e culturali cristallizzate per secoli. In fondo, la vicenda di Vella dimostra anche che, date le plurisecolari relazioni politiche e linguistiche intermediterranee, chiudere i porti – e persino pensare di poterlo fare! – è un gesto da stolti, poveri di Storia e di storie.