Degli scrittori del paese corridoio, come Roberto Bolaño ha definito il Cile, Diamela Eltit è quella che ha una delle scritture “… più complesse che si scrivano oggi in spagnolo, e di sicuro anche in altre scritture – scritture al femminile – d’avanguardia…[1]”.
Partire dalla diatriba fra Bolaño e Eltit è interessante (oltre a essere un gustoso gossip) perché permette di fare luce sulla politicità intrinseca della scrittura dell’autrice cilena al di là di vicende biografiche più o meno “eroiche”. Eltit non ha mai lasciato il Cile durante i diciassette anni della dittatura di Pinochet, periodo in cui ha fondato con altri artisti il Colectivo de Acciones de Arte (CADA) innovando in modo critico la scena artistica e durante il quale ha cominciato a insegnare e a pubblicare. Con ogni probabilità è proprio Eltit a essere definita dall’irrispettoso Bolaño “Una signora di una certa età, vissuta da sempre dell’elemosina che lo Stato getta agli artisti (…)”.
Un problema forse etico, ma che certamente non inficia la natura profondamente politica della sua scrittura che, attraverso un’architettura complessa, situata e allegorica, chiama il lettore in causa; un lettore che non è spettatore o fruitore passivo ma parte attiva di una ininterrotta articolazione di interpretazioni che problematizzano e mettono in questione sia la realtà sia gli strumenti di conoscenza della realtà. La stessa “difficoltà” a leggere i testi di Eltit è indicativa della qualità politica della sua scrittura, che mette in crisi le linee dominanti o egemoniche del narrare, mentre l’oggetto principale è la rilettura dei materiali culturali e storici con cui si costruiscono le ragioni dominanti, la loro disposizione e la costituzione di sistemi sociali, politici, sessuali, patriarcali e ideologici in cui le soggettività si formano e sono immerse.
I soli tre romanzi finora tradotti in italiano (non a caso da diverse case editrici) sono quasi privi di trama e tutti fondamentalmente allegorici: romanzi che ruotano attorno e hanno come oggetto concetti astratti come il potere, il tempo, i corpi, il genere, la resistenza.
Imposta alla carne (Atmosphere libri, 2013) – purtroppo quasi introvabile – è il monologo allucinato di un corpo (composto da madre e figlia, l’una intrappolata nell’altra) sottoposto a un controllo medico sadico e totale teso a espungere e riportare all’ordine ogni divergenza dalla norma. Il romanzo, uscito nel 2010 (bicentenario della indipendenza dell’America Latina), è una meditazione non lineare e una allegoria dell’intera storia del continente e del Cile vista dal punto di vista di due donne che proprio dalla loro marginalità osano e possono “profanare la bolla storica della nazione, del paese o della patria medica”.
In Manodopera (Alessandro Polidoro editore, 2020) in due sezioni narrative con registri stilistici diversi (il soliloquio di un commesso anonimo e il coro dei commessi che condividono per ragioni economiche la casa) l’autrice indaga il sistema-supermercato. Per Laura Scarabelli (meritoria studiosa e divulgatrice di Eltit in Italia) Manodopera è una “grande allegoria del mondo trasformato in territorio di consumo dove tutto si vende e si compra, il supermercato sembra aver integralmente assorbito gli altri luoghi corrodendo lo spazio abitativo e di libera circolazione di soggetti e idee”: il luogo dove si manifesta l’essenza del neo-liberismo. Ricordiamo che la dittatura cilena è stata l’occasione per imporre la dottrina liberista Chicago Boys le cui teorie economiche di privatizzazioni, primato del mercato e deregolamentazioni sono la base del regime. Quando Eltit scrive Manodopera nel 2002 il Cile è quindi già completamente immerso nella nuova ragione del mondo del liberismo.
Anche in Mai e poi mai il fuoco la storia narrata è scarnificata, ridotta all’osso (e le ossa dissezionate dalla carne sofferente sono un tema ricorrente nel romanzo): una serie di scene su un letto ciancicato da cui è stato espulso il desiderio, in una stanza anonima in un luogo imprecisato (forse Santiago del Cile?) dove due anonimi militanti di sinistra vivono (sopravvivono) in un tempo altresì imprecisato in cui versioni alternative e paranoiche si alternano attraverso la voce della donna che non smette mai di pensare, ricordare, chiedere, zittita in continuazione dall’uomo che invece sembra solo voler dormire e dimenticare.
I due sono sopravvissuti agli anni ’70, “al secolo che in un certo qual modo ci apparteneva”, oppure le loro voci arrivano da una tomba anonima di desaparacidos? Sono vivi o sono fantasmi come gli altri membri delle cellule rivoluzionarie che affollano la stanza ai piedi del letto con la loro muta ma petulante presenza? E il bambino – probabile stupro durante l’arresto della donna – è morto a due anni di malattia perché per ragioni di sicurezza non è stato possibile portarlo in ospedale, oppure l’uomo ha ucciso lui e la compagna?
Mai e poi mai il fuoco è il libro delle battaglie perdute: della sinistra, della coppia, del corpo, è dunque il romanzo della sconfitta definitiva di un sistema complessivo di pensiero (il marxismo) di contro al liberismo trionfante a un punto tale da non riuscire a immaginare un futuro? O c’è qualcosa d’altro nella resistenza che la donna mette in campo? Una donna che è stata, ai primi tempi della sua militanza, una fedele copista dei testi marxiani per poi diventare un’analista di prestigio e una riconosciuta linguista. Un cambiamento di prospettiva significativo: infatti nel romanzo non c’è traccia di una memoria malinconica o testimoniale del “come eravamo” e della “meglio gioventù” o, peggio ancora, di una memoria monumentale, ma piuttosto una analisi spietata di tutte e due le ragioni del mondo (intese, come detto sopra, come sistemi complessivi di cui fa parte anche la storia, “bolla storica della nazione” come la definisce Eltit in Imposta alla carne) nel tentativo di produrre un nuovo spazio di conoscenza critico e la possibilità di agire oggi. L’utopia piuttosto che la sconfitta?
C’è un capitolo significativo in Mai e poi mai il fuoco che sembra andare in questa direzione. È quando la donna, già incinta, esce e vede un vestito in una vetrina. Un vestito “che occupò interamente il mio desiderio (…) e, subito, lo desiderai, lo desiderai, lo amai, mi appassionò immediatamente”. La donna, nonostante sia un’analista provetta assolutamente consapevole del potere alienato della seduzione delle merci, decide di “rinunciare alla rinuncia che facemmo nei primi anni quando ci rifugiammo una volta per sempre dietro un notevole disprezzo”.
In questa rinuncia alla rinuncia viene svelato il fatto che i militanti avessero spostato il desiderio sul desiderio totalizzante che la storia (il materialismo storico) giungesse inevitabilmente al suo compimento (il comunismo o come lo vogliamo chiamare), ma si impone anche domanda che rimane inevasa e che Eltit ci offre: cosa ne è dei corpi singolari e collettivi, del corpo desiderante all’interno del materialismo storico e di una politica che, ancora oggi, si vuole di liberazione? Una risposta che non può che essere inscritta in una pratica politica che l’autrice ci consegna.
[1] Le parole di Bolaño sono tratte da Frammenti di un ritorno al paese natale, articolo sullo stato della letteratura cilena scritto al suo ritorno in Cile dopo 25 anni di assenza, nel 1998. L’ironia corrosiva di Bolaño non risparmia Diamela Eltit che se ne avrà a male. Poi, si sa, il povero grandissimo Bolaño è morto e come succede a tanti artisti morti giovani la sua opera sta subendo un processo di “monumentalizzazione” mentre Eltit è ancora una scrittrice difficile e di nicchia. Il testo – molto divertente – è contenuto (con una nota piuttosto acida che dà conto del seguito della polemica ma non chiarisce fino in fondo le allusioni dell’autore) in Tra parentesi, Adelphi, 2009.