I punti di vista di Anne Sexton sul mondo, sulla propria ambizione, e chissà di chi altri, svolazzavano e turbinavano a bassa quota e con rapide ascese terribili e devastanti – uccelli solitari in vista di cucine in fiamme e chitarre elettriche rispettose di folle rock. Lei, scrittrice e poetessa del New England altoborghese, segue cure psichiatriche e seminari di scrittura creativa, questi ultimi forse terapeutici (dopo il primo tentativo di suicidio) e forse no. Dal 1956 al 1967, anno del Pulitzer, ed estese vendite delle proprie opere. Letture e concerti con un gruppo rock s’incrociano ai tempi in cui la poesia confessional si ritrova alle prese con la poetessa più confessionale di tutti: il sogno americano cattura il suo angelo sacrificale. Sexton casalinga? Difficile da credere, e perfino da accettare, per un pubblico che ama le devastazioni. E Robert Lowell come immaginiamo affrontasse le due studentesse – Sexton e Plath – nella stessa classe dove lui teneva il suo corso di scrittura? Le due donne presumibilmente non si erano simpatiche, ma di certo l’ortodossia poetica del tempo trovava in loro strade di tutti i tipi, lisce e polverose, schizofreniche e frontali.
La dimensione orale, la comunicatività di questi testi beneficiano nella cura di Rosaria Lo Russo un forte ridisegno nella nostra lingua, una scrittura profondamente infera che si addice sia a palpitazioni musicali che a certe ballate neo-avanguardiste – care, per esempio, a Nanni Balestrini. The Book of Folly è restituito nella sua integrità, così come vide la luce nel 1972, e vi si trovano inscenate furie ed epifanie contrarie ai luoghi comuni statunitensi più in voga a quei tempi. Fiamme, sessualità, sogni meno che virtuosi e distaccati dal classicismo già conosciuto in Plath si nutrono a piene mani di una vocazione che si barcamena fra un crollo psichico e l’altro – ma sia chiaro, rifuggiamo dall’intricata storiografia che a lungo ha tenuto in ostaggio un inutile e stolto rapporto follia-poesia. L’identità degli inferni contenuti in queste anime è costituita da pura scrittura, da schiette parole che diventano molto più amiche di mani paterne sulle cosce e certamente più capaci di creare un mondo alternativo all’America le cui credenziali sono lontanissime dal credo di Anne Sexton.
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in memorian Giulia Niccolai, 1934-2021
Per tentativi ci si avvicina alla poesia, alla scrittura, di Corrado Costa, inseguendo alchimie sulla carta – provenienti dall’aria – che lui stesso tentava di acchiappare come farfalle, per portarle poi a quell’abbeveratoio che sognava e disegnava per gli amici. Poiché le immagini viaggiano vieppiù le si nega e le si nota (e annota) come sostanze leggere, la cui densità assomiglia a quella di particelle lontanissime nel tempo, in Corrado la biografia si sparge ovunque, e per gli stessi libri – da Pseudobaudelaire in poi – disporsi nel vuoto è un’impresa.
A trent’anni dalla scomparsa (non esiste vocabolo che meglio concerna C. C.) arriva il secondo volume delle Opere – dopo il primo dedicato ai versi giovanili – contenente tutte le poesie edite in volume, le poesie sparse in riviste e antologie, e moltissimi inediti resi disponibili dall’Archivio Costa allestito dalla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia. Fra una dissolvenza e l’altra, fra situazioni rasentanti il comico, i due Costa, l’avvocato e il poeta, viaggiano nel mondo aereo con lo stesso nome, e sembra casuale la presenza di queste persone tanto inattese quanto imperturbabili nella storia poetica di quel tempo. Pacatezza zen, patafisica diffusa a piene mani nella dimora di Mulino di Bazzano, proprietà affidata da Costa alla “cucina” internazionale di Adriano spatola e Giulia Niccolai. Poetica applicata alle cose, ritrovamenti di cose transitanti intorno alla testa di persone che non vogliono catturare ma testimoniare, osservare, e far sì che il flusso ripetitivo delle parole arrivi a più spettatori. Imperdibile, a tal proposito, l’introduzione di Aldo Tagliaferri al volume, il cui titolo non poteva che essere: Tentativo di vedere da vicino un poeta invisibile.
Corrado Costa, scrive, disegna, e se ne va: allontanandosi lascia sul terreno le vestigia, crea un mondo che altrimenti non esisterebbe, noi compresi. Quei testi, quei graffiti, indicano ombre circolanti, e una serie di fiumi infiniti contrari ai “sistemi”, e il poeta ci doppia senza che possiamo farci niente. Tutt’al più possiamo intuire in aria il sorriso beffardo del gatto del Chesire carrolliano, via dal mero naturalismo, sulle rive iperdimensionali di Joyce e Giulia Niccolai. Giulia, impagabile compagna d’avventura e scomparsa pochi giorni orsono.
In questo volume ricco di rimandi e contributi non si indietreggi di fronte alla giocosità, si osino i passi nel vuoto e nel pieno, ci si lasci trasportare avanti e indietro dai nastri filmici, poiché ora lo si può anche capire: il territorio delle “scienze umane” ha il sapore dell’improvvisazione, al suo interno è possibile ritrovarsi incuranti delle conseguenze.
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La realtà possibile, per restare nel campo limitato dei nostri sensi (escludendo le diversissime evasioni ipnotiche), per propria natura contiene l’uomo, dunque la poesia che dà sollecitazioni violente e oscure, dai contorni incerti, almeno quanto è incerto il tempo davanti a un telefono quando Flavio Santi attende una donna che vuole farsi più luna e meno donna: rivolgersi alle prime poesie contenute in Quanti per averne la prova. Chiara, questo è il nome che i versi trasferiscono nell’attualità del lettore, assumendosi per intero l’onere della lingua, tanto da incarnare l’essenza dei quotidiani gesti. Sembra strano che una poesia appaia più vera di un oggetto come il telefono o come tutti gli altri oggetti di cui siamo inventori e fruitori. Sarà per via delle particelle subatomiche, i quanti appunto, o forse perché il mondo (leggi realtà) si diverte ad allestire il proprio teatro, in cui noi siamo compresi.
Tutto molto complicato, se non fosse che alcuni poeti (una rarità attuale) comprendono l’insensatezza dei tempi, ma rifuggendo sentimenti postmoderni e corteggiamenti lussuosi Santi si appoggia sui propri impasti elegiaci dove trovano posto Mina e Pasolini, e nel folto dei puntini di sospensione pure quel che ricordiamo bene di Nadia Cassini (incantevole attricetta, NdR). Ma non finisce qui, l’abbondanza di temi e situazioni contenuti nel libretto ripagano del silenzio poetico di un poeta che ha avuto ben altro da fare: escludendo i romanzi scritti in proprio, dicono qualcosa le 1063 pagine tradotte dell’Anima che fugge, romanzo (o quel che è) di Harold Brodkey? Le cronache si fanno minacciose, fra una scrittura e l’altra e intorno a macchine e macchinazioni a cui il poeta non tende una mano ma punteruoli graffianti la labile situazione storica, e probabilmente poetica. Abbozzi e frantumi sono quel che rimane dell’inconoscibile, e l’indicazione stradale che conduce alle iscrizioni marmoree quasi del tutto insudiciate dai benpensanti.
Se la caduta dell’impero è quanto sperimentiamo, Quanti potrebbe leggersi come manuale di istruzione per richiamarsi a quel che è stato, regimi e terrazzamenti mozzafiato compresi, eversioni e contorsioni novecentesche non deducibili e piombate a valle. Richiamarsi per tentare quantisticamente un (ahimè assai improbabile) istantaneo salto di tempo. Ma la poesia, nelle sue ripiegature, qualche “estrazione” salvifica può ancora farla. E dunque, follie, giocosità e canzonieri oggi sono ancora qui per questo.