Nel 1936 la rivista Fortune propone al ventisettenne James Agee di scrivere un reportage sui fittavoli delle zone cotoniere degli Stati Uniti. Come compagno di viaggio gli assegna il fotografo Walker Evans, per corredare il testo di immagini. Nell’estate di quell’anno e per quasi un mese i due saranno ospiti di tre famiglie rurali dell’Alabama. Da quell’esperienza, da quella testimonianza “di cose che nessun essere umano può vedere” nascerà uno dei libri seminali del giornalismo d’inchiesta statunitense: Sia lode ora a uomini di fama (Let Us Now Praise Famous Men).
Da noi non è così noto, ed ecco un’ottima occasione per conoscerlo: sia lode dunque all’editore Il Saggiatore che ne ha riproposto la pubblicazione, corredandola di un’illuminante prefazione a firma di Luca Briasco e delle “Riflessioni del traduttore”, Luca Fontana, che ha svolto un lavoro egregio su un testo che presenta difficoltà invero notevoli, e del quale, in “un anno di lavoro dannatissimo”, ha saputo rendere mirabilmente le varie sfumature, il serratissimo ritmo interno. Si tratta infatti di un artefatto unico, che crea una nuova forma di reportage, fondendo generi e registri narrativi, intrecciando stili e tecniche letterarie al crudo resoconto giornalistico. Un testo che si pone come antesignano (pur con importanti differenze, di cui si dà conto nella prefazione) del New Journalism, che si affermò dagli anni Sessanta del Novecento, e che vedrà tra i suoi caposcuola artisti del calibro di Tom Wolfe e Truman Capote.
Il libro gemma dalla temperie della Grande Depressione, le cui drammatiche condizioni di miseria e conflitto sociale stimolarono un grande fermento culturale, un’autentica mobilitazione intellettuale che si concretizzarono in opere collettive di inchiesta e di denuncia, e che sul versante letterario diedero origine a una narrativa socialmente impegnata (il cosiddetto proletarian novel), focalizzata sulle durissime esistenze degli strati più deboli della società: i vagabondi, gli emarginati, i disoccupati. Non sarà un caso che proprio in quel decennio celebri scrittori quali John Steinbeck, John Dos Passos, Erskine Caldwell e altri produssero le loro opere migliori.
Il testo come lo conosciamo oggi è frutto di vari rimaneggiamenti. La rivista infatti giudicò impubblicabile l’articolo, esageratamente lungo, crudo e complesso. Agee e Walker riuscirono a fatica a trovare un editore, che finalmente lo diede alle stampe nel 1941. Il successo però arrivò soltanto con la riedizione del 1960, introdotta da una toccante prefazione di Evans (qui riportata), che tracciò dell’amico prematuramente scomparso un memorabile ritratto. Il libro fu adottato dai giovani e dagli studenti americani che lo introdussero nei roventi campus dell’epoca, affascinati dalla purezza morale, dal linguaggio pirotecnico, dalla forza poetica, dal programmatico rifiuto di ogni didascalismo, di ogni patteggiamento con una morale ipocrita e perbenista: un testo, dunque, davvero atipico per l’acerba America degli anni Trenta.
Come si può immaginare, passi memorabili, brani magistrali che recano in sé tutta la forza del vero, abbondano. Basti citare la scena di un gruppo di giovani neri costretti a cantare per intrattenere gli ospiti venuti dal nord, che con un lirismo struggente e una partecipazione empatica notevolissima (peculiarità di Agee) rende lucidamente la realtà e le conseguenze socio-antropologiche del razzismo e della segregazione come nessun manuale sociologico o nudo reportage potrebbe fare.
Ma la caratteristica che subito balza agli occhi è la forma composita del testo: Agee alterna impennate liriche a resoconti ricchi di informazioni e dati, brani narrativi ad altri di “osservazione diretta” della realtà, approdando a un descrittivismo impressionistico lontano anni luce dallo stile giornalistico tradizionale. Sono pagine traboccanti di assoluta empatia umana, priva di fredde e intellettualistiche analisi: i drammi familiari, il finissimo tratteggio psicologico delle relazioni umane, le ricostruzioni d’ambiente (memorabili quella della casa dove Agee e Evans alloggiarono): tutto è reso con un coinvolgimento emotivo e un amore davvero commoventi. Contestualmente, si delinea una tormentata riflessione sui confini e sui limiti della rappresentazione e dell’arte, sulla possibilità di cogliere e di rendere appieno il significato autentico della vita dei fittavoli, senza depotenziarlo o tradirlo con un realismo di facciata, o, peggio, con quella stucchevole benevolenza che lui e Walker rimproveravano alla letteratura “proletaria” allora in voga e a tanta arte impegnata.
Agee si propone quasi faustianamente “di individuare il valore di una porzione di esistenza neanche immaginata, e di inventare tecniche appropriate a registrarla, comunicarla, analizzarla e difenderla”. Il suo è dunque un tentativo di conoscenza attraverso il linguaggio, e non solo. Le questioni di etica individuale e di estetica si fondono infatti e trovano il loro correlativo oggettivo nelle fotografie di Evans, il cui stile diretto e immediato, icastico nel suo crudo realismo si dimostra consono agli intendimenti di Agee, che voleva dare una rappresentazione priva di infingimenti di un mondo segnato dalla povertà e dall’asservimento, ma anche da una dignità e nobiltà che ai suoi occhi gravidi di idealismo romantico assumevano il valore d’una bellezza dalle risonanze religiose.
D’altra parte, questo ibrido sperimentale “è un libro soltanto per necessità. Più seriamente, è un’impresa di esistenza umana in atto, in cui il lettore è non meno centralmente coinvolto degli autori e di coloro che gli autori raccontano”. Conscio delle difficoltà del suo progetto (“destinato al fallimento”), Agee si rivolge dunque direttamente al lettore, al suo intelletto e al suo cuore, reclamandone il coinvolgimento totale. E se questi accetta la sfida, si abbandona ai fluidi marosi d’una prosa a tratti “barocca”, intessuta di citazioni e figure bibliche ed elisabettiane, della tradizione poetica anglosassone, una scrittura che molto pretende e altrettanto dà, egli, il lettore, riuscirà a cogliere il nucleo più profondo di un tale progetto. Perché Agee è innanzitutto uno scrittore e, malgrado i timori, i sensi di colpa, l’istintivo scetticismo sulle possibilità della scrittura di comunicare la verità, è proprio questa lotta interiore che attraversa il testo come una linfa vitale a conferirgli significato e sostanza, a permettergli di giungere a quel realismo assoluto che si propone per raccontare le vite dei suoi ospiti.
Che queste tranche de vie abbiano avuto un impatto durevole e profondissimo sugli autori è pacifico. Basta leggere la dedica per intuire quanto quei giorni trascorsi “nella più fonda Alabama campestre”, nel caldo rovente, tra mosche e zanzare, povertà e miseria, lavoro, litigi, amicizia, amore e stenti, malgrado ogni barriera culturale ed esistenziale, abbiano tracciato un solco incancellabile nel loro animo e nei loro cuori: “A coloro di cui qui si narra con gratitudine e amore”.