Giulia Abbate, La cospirazione dell’inquisitore, Leggereditore, pp. 320, euro 16,00 stampa, euro 1,99 eBook
Una storia letteraria del Novecento, il secolo che ha visto nascere i generi letterari, non potrebbe trascurare il fatto che alcuni di questi sono divenuti strumento privilegiato per quell’interpretazione del mondo che è propria della migliore critica sociale. Questa “assunzione di responsabilità” è avvenuta intorno al passaggio del millennio, e con una certa progressione: prima nella fantascienza — grazia all’utopia e alla sua gemella
diversa, la distopia — poi per il noir, infine anche per la letteratura di detection, il giallo. Nessun autore rifiuterebbe oggi di contaminare la sua scrittura con elementi della letteratura popolare; e precisamente perché è dalla fertile intersezione tra due o più generi che nasce questa nuova vocazione “impegnata”: science-fiction più thriller, noir più letteratura esistenziale, giallo e politica. Quale sarà il prossimo genere a fare il grande salto?
Abbiamo assistito, con l’ampliamento del mercato del self publishing, alla particolare fortuna del romance, termine con il quale si tende a sostituire l’obsoleta definizione di “romanzo rosa”, divenuta fonte di sarcasmo tra i lettori. Il passaggio dal rosa al romance dovrebbe garantire una relativa nobilitazione, o comunque un affievolirsi del pregiudizio, anche grazie al fatto che molti nuovi autori che si cimentano nel genere sono uomini. Ma se il processo di “nobilitazione” letteraria è il medesimo degli altri generi, con quale dovrà contaminarsi il romance?
Credo che questo romanzo di Giulia Abbate possa suggerirci qualche indicazione; ma prima non possiamo esimerci dal ricordare che il rosa ha già tentato nel recente passo un’ibridazione, e che questa è stata gravida di conseguenze al punto di cambiare la percezione che ne ha il pubblico. Mi riferisco naturalmente all’irruzione nel 2012 delle Cinquanta sfumature… di E.L. James, con cui più o meno tutti gli autori hanno dovuto confrontarsi: una contaminazione quindi con l’erotico, e meglio un’accentuazione di quei caratteri erotico-soft che già da tempo erano presenti nelle collane specializzate, come Harlequin e I romanzi Mondadori. È il new adult, un genere con una chiara struttura romance, ma che affronta temi tipici dell’hard e che contiene scene di eros non tanto esplicite, quanto più sbilanciate verso temi ancora considerati scabrosi, come il connubio piacere/dolore.
Considerati i dati di vendita delle sfumature, anche le maggiori case editrici decidono di buttarsi: Mondadori naturalmente, ma anche Newton-Compton, Rizzoli, Fanucci (con la casa editrice Leggereditore che pubblica questo romanzo di Giulia Abbate), Garzanti, l’editrice Nord, fino a arrivare al successo del self publishing, con autrici che poi vengono messe sotto contratto da editori. A partire dal 2014, infine, il boom del romance-erotico in digitale, per esempio con la collana Senza Sfumature di Delos Digital.
Rimane da dire che la contaminazione ha rivitalizzato tutti i generi, tranne il romance.
Come scriveva qualche anno fa Alessandra Zengo su medium.com, “Oggi vendono i romance scritti male, quelli con la suora e il diavolo, quelli col ragazzo tatuato, quelli col gigolò, quelli che hanno pettorali scolpiti in copertina, i dark romance con violenze di vario genere”. Il romance soffre di una standardizzazione che ha abbassato la qualità del prodotto; la concorrenza non si gioca sulla qualità della scrittura, che rimane molto bassa dal momento che hanno successo libri anche molto brutti e scritti male, e questo è paradossale, dal momento che c’è un alto interesse dell’editoria e una forte attenzione del pubblico: basta fare una ricerca su quanti blog (soprattutto di blogger donne) recensiscono romance, siamo nell’ordine di centinaia. E questo per testi sciatti, scritti con uno stile senza personalità, terribilmente banali.
Fatta questa lunga premessa, torniamo alla domanda di prima: con quale genere dovrà contaminarsi il romance, se vuole fissare la propria impronta nella storia della letteratura di questo secolo? È intorno a questo che mi sono interrogato durante la lettura di La cospirazione dell’inquisitore, perché la mia risposta a questa domanda è naturalmente “il romanzo storico”.
Il romanzo di Giulia Abbate, editor di professione, blogger per necessità e scrittrice di fantascienza per autolesionismo, condivide infatti con molti romance l’ambizione di una ambientazione storica – ma qui è tutt’altro che di maniera – e in nessun modo ammicca a quel comodo décor pseudo-storico che si limita a trasferire personaggi e situazioni del presente in un improbabile passato, dove tutti si comportano come ci si immagina si comporti la middle-class americana.
Qui la prospettiva si rovescia completamente. Per buona parte del romanzo (che ha la non comune lunghezza di quasi 400 pagine) l’elemento rosa rimane sullo sfondo, la trama si gioca invece intorno a due elementi forti: un’impressionante ricostruzione dei meccanismi giuridici-procedurali dell’inquisizione nel basso medioevo, e il tentativo della protagonista di sottrarsi alla clausura sociale e psicologica insita nella condizione di una giovane vedova appartenente alla bassa nobiltà infeudata.
Siamo nel Trecento, in un borgo dell’entroterra marchigiano. La giovane Elisa degli Altoviti tenta di vivere al meglio quello che rimane della propria esistenza senza rinchiudersi in un convento, come vorrebbe il suo destino di giovanissima vedova. Il padre e il fratello sono rimasti uccisi nelle lotte tra guelfi e ghibellini; il marito, partito per le crociate, è miseramente annegato lungo la strada per la Terrasanta; la madre è stata costretta dai parenti a seguire la via monastica. Elisa sopravvive nella soffocante famiglia del cognato, che ha ereditato il diritto feudale su un borgo al confine dei domini del papato.
La vicenda si svolge nel breve arco di pochi giorni. Inizia con l’inatteso arrivo di un inquisitore, il domenicano Riccardo degli Appiano, dal comportamento austero e dispotico, che porta con sé un gruppo di seguaci devoti e fedeli al suo volere. È soltanto di passaggio in questo angolo dimenticato, oppure è venuto appositamente per esercitare qui la sua azione di repressione dell’eresia? E se è così, di quale eresia si parla? Nei giorni successivi all’arrivo dell’inquisitore, Elisa rimane in equilibrio fra il timore per la sua
presenza e l’attrazione fisica per quest’uomo che, come si scopre, ha un passato di soldato prigioniero nelle galere dell’Islam. La donna alla quale Elisa si sente più vicina, Gisella, è stata arrestata dal balivo cittadino con l’accusa di stregoneria, ma è sufficiente questo perché Roma invii appositamente un suo giudice?
Questo è solo lo spunto di partenza di una storia molto tesa, incalzante, nella quale la tematica romance è dominante, volentieri contaminata con l’erotico; ma l’elemento di genere storico non è soltanto un pretesto per rendere pruriginosa una storia “etero” ambientata nei secoli bui: al contrario, il medioevo di Giulia Abbate è una ricostruzione incredibilmente meticolosa, e non solo d’ambiente. La mentalità dell’uomo e della donna del Trecento sono ricostruite perfettamente, e diventano uno degli elementi essenziali nel plot: scordatevi una semplicistica contrapposizione Chiesa oppressiva / erotismo liberatorio. Il personaggio di Riccardo è irrimediabilmente integrato nella logica di dominio totalitaria di Roma; il raggiungimento dell’estasi sessuale (siamo in un romance, vale la pena ricordarlo) non può essere la molla che lo porta a un ripensamento del proprio ruolo.
La ricostruzione dei meccanismi della giustizia basso-medievale, totalmente irrazionali per chiunque sia nato dopo la dissoluzione dell’ancien régime, con la sua rete di poteri incrociati e sovrapposti, la giurisdizione signorile, la giurisdizione comunale, i poteri ecclesiastici, è talmente minuziosa da divenire uno dei protagonisti della narrazione: e questa è la seconda ragione per cui la medesima storia non potrebbe esser ambientata in un’altra epoca storica. Si intuisce (non viene detto esplicitamente perché la voce narrante è una donna del suo tempo, e non aspettiamoci da Elisa un’anacronistica mentalità moderna) che la parte del leone in quel fenomeno di oscurantismo che fu la caccia alle streghe non è della Chiesa, bensì delle autorità temporali, al contrario di quanto è sedimentato nella coscienza moderna. La mentalità medioevale è talmente permeata di una religiosità chiusa, asfittica, intollerante, da non aver bisogno della continua attenzione della gerarchia ecclesiastica. La persecuzione dell’eresia è solo una delle forme della paura del diverso che attraversano la storia dell’umanità.
Infine, terzo aspetto notevole di questo romanzo è la figura della protagonista Elisa. Forte sarebbe stata la tentazione di trasformarla in una figura proto-femminista, e gli elementi ci sono tutti: la debolezza intrinseca del suo status personale, la possibilità di perdere l’ultima rendita che le permette autonomia economica, il naturale sospetto per l’indipendenza di pensiero coniugata a una capacità di seduzione che è insita nel rapporto femminile/maschile, ma distorta dalla società patriarcale in un veicolo di tentazione demoniaca. Ecco, Giulia Abbate riesce a sfuggire a tutte queste trappole. Elisa non mette mai in discussione il potere maschile, i rapporti di forza, la liceità di una giustizia che oggi ci appare perversa, se non per quanto riguarda il naturale sopruso di una struttura sociale modellata sull’autorità maschile, contro la intrinseca debolezza del femminile, tanto più odioso quando si esercita su bambine.
La cospirazione dell’inquisitore è una storia di attrazione sessuale e angoscia, pervasa di un senso di precarietà personale che può essere solo opera di una mano consapevole; la protagonista è costretta al paradosso di doversi affidare ai nemici per salvarsi dal pericolo degli amici. I rischi di rovinare questo delicato materiale con un finale consolatorio sarebbero molto forti, negli ultimi capitoli si intuisce la possibilità di uno sbandamento rovinoso, eppure l’autrice riesce a scansarli e condurre in porto la nave della sua storia — regalandoci inoltre il fleur du mal di uno di quei colpi di scena che fanno male, che non ti
aspetti perché è vero che è una conseguenza logica del plot, ma il lettore non può crederci finché non ci inciampa, e allora è troppo tardi. Non ti resta che inghiottire la tentazione di inveire contro l’autrice, e rassegnarti a scrivere una recensione favorevole, decisamente favorevole, entusiastica anche, perché tu forse non avresti mai il coraggio narrativo di estrarre dal tuo subconscio quel nero che lei ti ha sbattuto in faccia.