A Basilea, sull’esterno di un’ansa del Reno, sorge la cattedrale della città. È una chiesa molto antica, e le sue fondamenta risalgono all’anno mille. Dal 1529 è una chiesa di culto protestante, e in quegli anni la città ha visto susseguirsi drammatici e sanguinosi eventi, proprio a causa della nascente nuova religione. Entrando nella chiesa e percorrendo la navata di sinistra, si incontra una lapide. È la tomba di Erasmo da Rotterdam, che qui giace dal 1536. La gran parte della fama odierna di questo intellettuale coltissimo è dovuta a un pamphlet satirico che pubblicò nel 1511, il Morae Encomium, oggi noto come Elogio della follia. Erasmo lo scrisse in una settimana mentre era ospite di Tommaso Moro, e difatti proprio a quest’ultimo è dedicata l’opera, il cui titolo gioca sul doppio senso tra il cognome del suo illustre ospite e la follia stessa.
Il tema dello stolto, il buffone che come nessun altro può parlare al re e all’imperatore, del folle che gode di uno status quasi privilegiato, di intoccabile, è tipico della cultura tardo medioevale. È difatti proprio nella stessa Basilea che alcuni anni prima, nel 1494, uno scrittore tedesco alsaziano, Sebastian Brandt, scrisse un poemetto satirico intitolato La nave dei Folli, correlato di una serie di litografie di Albrecht Dürer. Il testo è una allegoria basata sul libro VI della Repubblica di Platone, ed ebbe un grande successo, così come quello di Erasmo di poco posteriore, segno della sensibilità diffusa anche fuori dalle università e dei luoghi di cultura, rispetto a un tema – la critica al potere e a chi lo detiene – particolarmente sentito in quegli anni. Non è un caso che proprio al poema di Brandt si ispirò negli stessi anni Hyeronimus Bosch, che dipinse un trittico con lo stesso titolo.
La cultura novecentesca ha ampiamente ripreso questo tropo letterario, a partire dal primo capitolo della Storia della Follia nell’età classica di Michel Foucault, che si intitola proprio Stultifera Navis, come la traduzione latina del titolo tedesco. Anche nella cultura meno accademica contemporanea però si ritrovano molte tracce del tema, e vi sono canzoni intitolate Ship of Fools scritte dai Grateful Dead, dai The Doors, da John Cale, John Renbourn, Robert Plant, Van der Graff Generator, Tuxedo Moon, oltre al pluripremiato omonimo film di Stanley Kramer.
La musica è in un certo qual modo difatti sempre compagna dello stolto, del giullare e del folle, ed è proprio questo il taglio con cui un musicista e scrittore dichiaratamente anarchico, si accosta alla vita di un altro musicista e scrittore invece dichiaratamente comunista, e questa grande metafora, il folle che vede il potere meglio dei savi, e che attraversa l’intera storia d’Europa, è diventata per Alessio Lega la porta d’ingresso alla biografia di Ivan della Mea. “La nave dei folli” cantata da Ivan della Mea arriva già piuttosto avanti nel suo percorso musicale. È più di una canzone, è una cantata, e dimostra la sua particolare sensibilità verso la malattia mentale, qui vissuta esplicitamente come fenomeno sociale, di fronte a tanti amici e compagni travolti dall’alcool e dalla depressione (tra cui il fratello Luciano) e incapaci di affrontare il mondo nuovo, quello della sconfitta e della quotidianità. Si ritrova qui la grande attualità di Ivan della Mea, e colpisce la lucidità di molti passaggi, uno per tutti l’uomo bianco in “Io so che un giorno”, che apparentemente incarna l’infermiere del TSO, il medico delle medicine, ma per estensione la tecnica intera, la sterilità di un mondo che non comprende, e infine la morte stessa, che giunge nel suo camice immacolato.
La vita di Ivan della Mea si svolge principalmente a Milano, anche se vi giunge che la sua infanzia è già finita. Nato a Lucca nel 1940, per una serie di vicissitudini trascorre in orfanatrofio gli anni della guerra, e viene rintracciato dal fratello maggiore Luciano solo nel 1946. Milano nel dopoguerra potrebbe ricordare per tanti motivi la Basilea della fine Quattrocento, principalmente per il suo essere crocevia di mondi diversi, il suo appartenere sia al mondo precedente la guerra sia a quello che l’ha seguita. Attraverso il racconto della vita di Della Mea, Lega descrive e racconta con affetto e competenza la nascita e la vita di quella grande avventura della cultura popolare nella seconda metà del Novecento che fu la nascita dell’etnomusicologia italiana, dei suoi personaggi e dei rapporti tra il neonato studio della musica popolare e le lotte della sinistra politica, sia di quella partitica che di quella più movimentista ed extraparlamentare, come emergerà completamente a partire dalla fine degli anni Sessanta. Questo racconto è impregnato e immerso nella vita sociale dell’Italia di quegli anni, e Alessio Lega ci restituisce uno spaccato di quel mondo, dove Milano si dimostra essere un laboratorio sociale, il centro di tutto ciò che di rilevante e rivolto al futuro stava succedendo, sul piano culturale come su quello economico e politico. A Milano, praticamente in tempo reale avvengono le prime analisi sociali sulle nuove realtà urbane della futura metropoli (si ricordi la celeberrima testimonianza sulle bidonville che allora circondavano le fabbriche intitolata Milano Corea Inchiesta sugli immigrati negli anni del «miracolo» di Danilo Montaldi e Franco Alasia, ristampato da Donzelli nel 2010), e anche sul piano culturale già alla fine degli anni Cinquanta emergono realtà che sono un segnale forte e chiaro del nuovo asse emerso dalla resistenza tra mondo culturale e rappresentanza politica: il Piccolo Teatro di Giorgio Strehler, fondato nel 1947, mette in scena tra gli altri Brecht, Gorkji, Shakespeare, Goldoni, e nel campo della musica popolare diventa una fucina di nuovi autori, attori, musicisti, cantanti, tra cui Dario Fo, Enzo Jannacci, Milly. Il quartiere di Brera diventa a poco a poco una piccola Parigi bohemienne, dove si incontrano artisti di ogni tipo, come Lucio Fontana, Uliano Lucas, Ugo Mulas, Emilio Tadini, Luciano Bianciardi. Nasce il mondo della nuova musica, con molte diramazioni, si va dal cabaret come quello dei Gufi sino a Nanni Svampa, che porta a Milano Brassen e la canzone d’autore d’oltralpe, da Lino Patruno, chitarrista jazz, a personaggi infine come Ivan della Mea che – in questo ribollente mondo in crescita – scrive la sua musica e le sue poesie insieme a quel nucleo di musicisti e autori che cerca di coniugare la ricerca sulla musica popolare al mondo della neonata canzone politica e di lotta. Ricordiamo, solo in un passaggio veloce, la grande avventura del Nuovo Canzoniere Italiano, che raggiunse i vertici della notorietà con lo scandalo dello spettacolo Bella Ciao al festival dei Due Mondi di Spoleto nel 1964. Qui si sono incrociate le vite di Gianni Bosio, Roberto Leydi, Michele Straniero, Sandra Mantovani, Giovanna Daffini, Caterina Bueno, Giovanna Marini, Fausto Amodei, e molti, molti altri, delle cui vite ci racconta Alessio Lega attraverso il filtro di Ivan della Mea.
Non si creda però che Lega costruisca solo una bella cornice. Il quadro, ovvero l’analisi dettagliata e approfondita dell’opera di Della Mea, è presente sin dall’inizio. È il taglio che viene dato, poiché si vuole mostrare il completo parallelismo tra lo stile di vita e la poetica, che impone una visione di insieme. Difatti, anche nella canzone politica in senso stretto, che quasi sempre prende spunto da una situazione personale, da un fatto, da un evento preciso, come in “Cara Moglie”, si arriva sempre in una dimensione collettiva che coinvolge tutti, e li unifica sotto il concetto di popolo, ma – attenzione – senza per questo scoprirsi didascalica o ideologica. La canzone di Della Mea resta sempre nel fatto, sul fatto. È una sorta di giornalismo d’assalto il suo, sia se parla del vino di una sera, di una amicizia tradita o di uno studente morto ammazzato. Il popolo di Della Mea è sempre e – quasi per definizione – comunista. Il nemico, il fascista, è un borghese, non fa parte del popolo, che assume quindi una precisa connotazione di classe: il proletariato. Ivan Della Mea, poeta di un popolo che ancora non si sente abbandonato, in quegli anni sogna e insegna a sognare. De Sica, in una memorabile scena in cui appare anche un Ivan della Mea bambino infreddolito nelle baracche, fa volare Milano sulle scope, e forse proprio quella immagine era nella sua mente, quando, oltre quarant’anni nella canzone “La Mongolfiera”, scriveva:
per ridarci una vita contro chi ci fa morire
il diritto alla gioia è da inventare.