La narrazione della scienza e la politica del cosmo

Venti anni fa, in un testo monumentale, Cosmopolitiche , la filosofa Isabelle Stengers si chiese come possiamo immaginare il mondo liberando la scienza dai limiti della sua narrazione.

In che modo le scienze ci costringono a pensare il mondo? In che modo ci informano riguardo alle nostre possibilità di comprenderlo? Sono le domande che Isabelle Stengers, filosofa e storica delle scienze, nota ai più per aver scritto con Ilya Prigogine, premio Nobel per la chimica, La nuova alleanza (1), affronta nelle pagine di Cosmopolitiche (Luca Sossella editore, 2005). È un volume ponderoso che raccoglie al suo interno altri sette libri – da leggere, per ammissione della stessa autrice, anche in maniera indipendente, pur mantenendo tra loro una notevole coerenza – che interroga oggi, senza mezzi termini, la nostra dipendenza dalla narrazione scientifica. Alle domande della Stengers ci si trova oggi avvinti, man mano, in un percorso che affronta di petto quella che si potrebbe definire l’essenza dell’uomo moderno: la sua “vocazione cosmica”. Un’essenza che vorrebbe imporsi come universalistica e perenne secondo quel “principio antropico (forte)” che vedrebbe nelle finalità dell’universo “la produzione di coloro che lo descrivono”.

Stengers, parlando della fisica, ci dice che noi ci troviamo “all’interno di una scienza che esplora il potere della finzione, non l’arbitrio della finzione”. Cosa significa? Significa che non può autorizzarci a postulare l’esistenza di leggi naturali che lo stesso Darwin vedeva solo come una “sequenza combinata di fatti da noi accertati” e niente più.  Parlando di scienza occorre quindi evitare sia la s-valorizzazione relativistica, che tende a ridurre qualunque verità a costruzione artificiale e quindi illusoria (riducendo tutto a pura e semplice credenza), sia il sogno di un  “ricongiungimento con la verità del mondo” attraverso la scoperta di quelle leggi a cui la natura sarebbe costretta, suo malgrado, a ubbidire. 

Ma, paradossalmente, è in questa vocazione che potremmo anche trovare il vero significato della produzione culturale forse più rappresentativa del XX secolo, quel genere iperinvasivo chiamato fantascienza. (2). E anche se Stengers, al contrario di un’altra filosofa contemporanea (e amica), Donna Haraway, non cita apertamente titoli, o autori, di fantascienza(3), tutto il suo discorso e il suo immaginario sembrano sollecitare questo parallelismo. E, forse, ancor di più, ci invita a comprendere la scienza proprio  attraverso quel gioco fantascientifico  detto della matassa(4) (o “ripiglino”) attraverso cui Stengers e la stessa Haraway hanno dialogato  a distanza, postulando la possibilità di «non far finire il racconto, il divenire del mondo» e di sopravvivere in un pianeta infetto, in cui la catastrofe è già avvenuta lasciandoci il futuro alle spalle.

Se si ha il coraggio, e forse un po’ anche l’incoscienza, di guardare a “Cosmopolitiche” in modo poco ortodosso (per un lavoro rigoroso, che parlando di quanti, entropia, tempo, ecc. non concede nulla alle semplificazioni e ai voli di fantasia di tante volgarizzazioni per palati facili) si potrà provare a restare  sui problemi che le varie domande della scienza aprono, piuttosto che su ciò che le rispettive risposte tendono a chiudere. La “fantascienza”, dal canto suo,  oggi non è più relegata a un genere, che la delimita e la norma, ma è piuttosto un nuovo dispositivo che predispone a un diverso modo di vedere un presente che è divenuto tutt’uno con il futuro. Per questo può aiutarci (anche) ad accettare l’invito di queste cosmopolitiche a “imparare a pensare” per “imparare a resistere a un futuro che si da come evidenza”.  Sempre che “il presente offra ancora materia per la resistenza e che sia popolato di pratiche vive anche se nessuna di queste è sfuggita a quella modalità parassita generalizzata che le coinvolge tutte.” Con Stengers, è la tendenza distopica dell’evo moderno, nella sua eco di ineluttabilità, che qui viene fatta emergere per poi essere rimessa in discussione da una possibile pratica, che senza pretendersi pura (e quindi tanto astratta quanto fallace), la sappia depotenziare negli effetti più nocivi e mortiferi. 

L’entità a cui occorre saper resistere – e che l’autrice non ci prospetta mai la possibilità di poter sconfiggere – ha oggi il volto del Capitalismo e caratteristiche di un potente, quanto pervasivo, virus. Un’entità virulenta tanto contagiosa quanto “realmente tollerante e relativista (…). L’unica in grado di far coesistere pratiche e valori totalmente differenti, salvo poi rivoltarsi contro quelli che gli interessa distruggere”. Perché, insiste ancora Stengers: “il capitalismo è assolutamente indifferente ai valori e alle pratiche che coinvolge, non essendo coinvolto in nulla, neanche nei suoi momentanei assiomi, i quali non hanno niente a che vedere né con delle esigenze, né con degli obblighi.” Qualcosa, insomma, di più simile a un’entità sinistra come il Cthulhu di H.P. Lovecraft(5) che al Chthulucene,  la definizione dell’ era geologica presente evocata da Haraway (in luogo di antropocene o capitalocene) nel suo ultimo lavoro. Un mostro a cui non si può resistere “aggrappandosi al mantenimento di vecchi territori, o più precisamente tentando di farli rivivere come esistevano in precedenza, riuscendo solo a far nascere l’incubo di mostruose re-territorializzazioni, ritorno ad un arcaico che non è mai esistito”. Ma questo, nel pensiero della filosofa belga, non significa affatto arrendersi alla sua corrente: “Ciò che è altrettanto possibile affermare è che ‘andare più oltre’, ‘accelerare il processo’, non significa affatto andarci allo stesso modo della assiomatizzazione capitalistica, accelerando secondo le stesse coordinate.”

A ben vedere, tutto l’ immaginifico caleidoscopio novecentesco della science fiction non ha fatto altro che oscillare tra queste due opposte spinte mitologiche, tra il ritorno a un Arcadia mai esistita, piuttosto che verso un futuribile gravido di promesse quanto di minacce estreme.  L’”andare più oltre” per Stengers non può invece servirsi di alcuna narrazione utopica, ma solo di “racconti diversi da quelli che trasformano la storia in fatalità”. I racconti diversi, quelli che resistono, sono quelli che si devono imparare a fare da “visitatori civilizzati e da buoni antropologi” (quelli che si pongono in posizione simmetrica agli altri) seduti “attorno al fuoco, o piuttosto accanto alla caffettiera, di coloro che li accolgono”. Per “ascoltare le speranze e i dubbi, i sogni e le paure che si esprimono in strani idiomi” e raccontare a loro volta “nello strano idioma che parlano anche loro per le proprie celebrazioni, i dubbi e le speranze, i sogni e le paure, che hanno sperimentato qui e altrove, nel corso delle loro peregrinazioni. (…)  esperienza trasduttiva senza la quale ogni critica  è un giudizio e una squalifica. Non si comprende mai del tutto il sogno dell’altro, le sue speranze, i suoi terrori, nel senso che si potrebbe proporne una traduzione esatta, ma non di meno trasformata: esperienza di deterritorializzazione che non passa per le vie della critica” (6)

Da questa premessa possiamo guardare dentro a queste Cosmopolitiche  attraverso quel processo di rimescolamento tra finzione narrativa e filosofia della scienza che, secondo Donna Haraway, ha portato Stengers “come Bruno Latour  e ancor di più come Ursula Le Guin – una delle scrittrici di FS più generative – (…) a cambiare il racconto” su Gaia, l’immagine mondo del nostro pianeta come complesso sinergico e vivente, concepita per la prima volta dal biologo inglese James Lovelock negli anni ’70. Prosegue infatti Haraway: “Concentrandosi sull’intrusione anziché sulla composizione, Stengers definisce Gaia come un potere spaventoso e devastante che si intromette nelle nostre categorie di pensiero, nel pensiero stesso. La Terra/Gaia è creatrice e distruttrice, non è una risorsa da sfruttare, un pargolo da proteggere o una madre che allatta e promette di nutrire. Gaia non è una persona, ma un insieme di fenomeni sistemici complessi che formano un pianeta vivente.” (7) E, aggiunge Stengers stessa: “Gaia è colei che mette in discussione e interroga le narrazioni e i ritornelli della storia moderna. C’è solo un vero mistero in gioco: la risposta che noi – tutti noi che apparteniamo a questa storia – saremo in grado di creare mentre affrontiamo le conseguenze di ciò che abbiamo provocato.” (8)

Per “cambiare il racconto”, mettere in discussione e interrogare “le narrazioni e i ritornelli della storia moderna”, occorre rifare il percorso che ha portato le scienze  a costringerci a pensare in un certo modo il mondo, e non in un altro, ma soprattutto al modo in cui siamo informati riguardo alle nostre possibilità di comprenderlo. Un percorso fatto cominciare all’inizio del secolo scorso: il primo libro di CosmopoliticheLa guerra delle scienze  –  parte da una paradossale disputa sulla fede, “sulla fede nell’unità intelligibile del mondo” che contrappone Max Planck a Ernst Mach nel lontano (ma forse neppure troppo) 1908 sul tema della “vocazione del fisico”. L’incipit non è casuale, è infatti anche un tributo uno dei maestri riconosciuti sia da Stengers che da Haraway, il filosofo e matematico inglese, Alfred N. Whitehead, autore dei Principia Mathematica assieme a Bertrand Russell, che in uno dei suoi libri più appassionanti parla proprio di questa fede come di quella “fede inespugnabile che ogni evento particolare può essere correlato, in modo perfettamente definito, ai suoi antecedenti e fungere ad esempio di principi generali. Senza questa fede l’enorme lavoro degli scienziati sarebbe disperato. È questa fede istintiva, vivamente sostenuta dall’immaginazione, che costituisce il motore della ricerca: v’è un segreto, e questo segreto può essere svelato.” (9) La fede, sempre secondo Whitehead, è il maggior contributo del Medioevo alla formazione del movimento scientifico. Ed è da questo vulnus alla credenza occidentale di un pensiero puro, razionale per eccellenza, che il racconto della Stengers prosegue.

E il racconto di Stengers prosegue in crescendo, da un libro al successivo. Il suo programma di lavoro prevede di instaurare con il lettore “una vera e propria sperimentazione etica”, almeno con quanti disponibili a farla. L’invenzione della meccanica, La termodinamica, La meccanica quantistica, La freccia del tempo, La vita e l’artificio e infine Per farla finita con la tolleranza, sono le ulteriori tappe attraverso le quali cui si snoda questa sperimentazione. Difficile in alcuni momenti, esaltante in altri, immaginifica in altri ancora… Dall’invenzione che, per Whitehead, fu la più grande invenzione del diciannovesimo secolo, ai “fatticci” di Latour, quei fatti scientifici dai quali esigiamo “per ammetterli all’interno delle nostre storie, di esistere ‘prima’ della pratica  che pur tuttavia li fa esistere, e di poter così spiegare quest’ultima a partire da essi, in termini di ‘scoperta’”.
Stengers ripercorre passo a passo la storia della scienza moderna. E lo fa sempre rimarcandone il suo peccato d’origine: quella “credenza” nel “potere delle prove” in grado di squalificare “tutto ciò che esse non sono state capaci di creare”. Ma – attenzione – senza per questo incorrere nella trappola epistemologica in cui è caduto, per esempio, Feyerabend, secondo il quale “la scienza è solo politica, dato che la politica è dappertutto”, approdando, di fatto a “una posizione riduzionista: non è perché nelle scienze la politica è dappertutto che la scienza è solo politica. Non è mai solo politica.” (10) 

Alfred North Whitehead

La critica di Stengers non mira a distruggere quanto a rigenerare attraverso quello che lei definisce come “humor della verità”, una pratica che vede nei fatticci “un modo per affermare la verità del relativo, cioè di rapportare il loro potere a un evento pratico e non alla verità di un mondo di cui una data pratica scopra solo l’accesso”.  Da qui scaturisce anche una vera e propria proposta rivolta ai fisici (la cui scienza da almeno un secolo fa da modello a tutte le altre) “di liberare il potere dei fatticci dalle visioni del mondo che essi sembrano autorizzare”. Una visione del mondo resta infatti sempre e comunque una visione mitica, e da questo riconoscimento la scienza non avrebbe nulla da temere, se invece di difendersi lasciassero “perdere il percorso stretto e austero che li contrappone al mito”.  In pratica rinunciando all’enfasi profetica per dedicarsi a “un ascolto poetico della natura”, dove  il termine “poetico” va “inteso nel senso etimologico di ‘fabbricatore’.” Fabbricare la verità è l’opera costante della natura nel suo processo di continuo cambiamento e incessante divenire.

Dopo aver dialogato con i tanti protagonisti delle scienze moderne, della fisica come della matematica, della chimica, biologia, etnologia fino alla psicoanalisi, e coi loro sogni (arroganti o umili che fossero), Isabelle Stengers arriva alle sue conclusioni. Le conclusioni di un Parlamento Cosmopolitico “per quanto precario e evanescente possa essere”, in cui ci si possa accovacciare tutti insieme “come sanno fare gli africani, quando viene il tempo della parola”, non possono che essere “fuori calcolo”. Un fuori calcolo “che fa risuonare insieme tutti i calcoli disgiunti, ma anche ciascun calcolo individuale.” Per far sì che l’ennesimo libro di divulgazione scientifica dal titolo What makes Nature Tick? Sulla fisica contemporanea, i suoi neutrini, i suoi quark, il suo big bang e le sue iterazioni, unificabili o meno” non possa essere più scritto. E per far sì che si possa far risuonare (come fece nel 1872 il fisiologo tedesco Emil Du Bois-Reymond) “dei solenni ignorabimus: noi ignoriamo e sempre ignoreremo, anche se conquistassimo la conoscenza del demone di Laplace ( e con essa, secondo il paradosso, la cognizione di tutte le particelle dell’universo nello spazio tempo), ‘ciò che è’, sia ciò che conosciamo (ciò che laddove esiste la materia, ‘abita lo spazio’) sia ciò che conosce (l’essenza e l’origine della coscienza)”.

 Nel suo ragionare divergente, per Stengers, donna e strega, ribalta il suo discorso e fa diventare What makes Nature Tick? una “domanda “fuori calcolo”, non nel senso che essa costituirebbe un fattore trascendentale unico per tutti i calcoli, ma nel senso che essa è il fattore virtuale di ogni calcolo, ciò che essa afferma e richiede nell’atto stesso in cui si intraprende”. Non ci sarebbero più limiti a ostacolare il nostro bisogno di conoscenza perché, in una politica del cosmo, non si aspira più a una “conoscenza in rapporto alla quale essi si definiscono in quanto limiti”. In una situazione come quella odierna, allora, a quale soluzione dovremmo affidare la sempre più drammatica crisi climatica o la devastante pandemia in atto? Quali limiti dovrebbe superare la tanto auspicata accelerazione della nostra macchina da guerra tecno-scientifica? Forse un solo unico limite. Quello “di dovere, alla fine, avere il coraggio di ammettere che forse non ci siamo allontanati da un passato che siamo così fieri di aver superato:” E quindi potremmo sperare ancora di poter “guadagnar tempo per speculare, indagare e resistere al panico” (11) e pensare insieme, perché è solo insieme che potremo trovare la forza di resistere tra le rovine di questo pianeta infetto.

[1]: Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, La nuova alleanza, Einaudi, 1981. 

[2]: “La fantascienza (non si può non essere d’accordo con Ballard) è stata l’immaginario portante del XX secolo “ Antonio Caronia, L’insostenibile naturalità della tecnica, in Dal cyborg al postumano (a cura di Loretta Borrelli e Fabio Malagnini) Meltemi, 2020

[3]: Unica eccezione il romanzo Existence di David Brin citato spesso in scritti recenti.

[4]: “Compensando il mio lavoro sul gioco della matassa assieme al lavoro di Felix Guattari – un altro dei suoi compagni di pensiero – Isabelle Stengers mi ha ritrasmesso l’idea di come i giocatori si passino reciprocamente le figure di filo, a volte conservandole, a volte proponendo e inventando qualcosa di nuovo.” Donna Haraway, Chthulucene, Nero Edizioni, 2019, p. 56.

[5]: “quel mostro misogino da incubo razziale” D. Haraway, Chthulucene, ivi p. 145. 

[6]: Il concetto di trasduzione “associa la creazione (di un essere o di un sapere) alla messa in comunicazione fra due realtà eterogenee”.

[7]: D. Haraway, Chthulucene, cit. p. 69.

[8]: Isabelle Stengers da un compendio su Gaia spedito via mail a Donna Haraway il 14 gennaio 2014, in D. Haraway, Chthulucene, cit. p. 70.

[9]: Alfred N. Whitehead, La scienza e il mondo moderno,  Paolo Boringhieri 1979, p. 30.

[10]: La scienza e la storia. Conversazione di Sergio Benvenuto con Isabelle Stengers. Bruxelles, luglio 1990.

[11] I. Stengers, Gaia, the urgency to think (and feel)