Centro anni fa nasceva Chris Marker, saggista, fotografo, documentarista, artista multimediale. La Jetée (1961), il cortometraggio (28”) simbolo della Rive Gauche cinematografica che lo ha consacrato al mondo, rimaneva 50 anni dopo secondo Time Magazine il miglior film di sempre sui viaggi nel tempo. Il tempo, la geografia del ricordo, la trasfigurazione del quotidiano nei fotogrammi e poi nelle memorie digitali sono temi su cui lo sguardo e la parola di Marker – nome di battaglia che Christian François Bouche-Villeneuve acquisisce nel Maquis e mantiene tutta la vita – ricorrono ossessivamente in documentari sperimentali (o saggi in forma di documentari) come San Soleil (1983) o Five Level (1997) che Susan Sontag ha accostato a Vertov. Nella sua galleria di ossessioni personali la memoria del futuro non ha semplicemente un posto importante, accanto alla cultura giapponese, ai luoghi hitchcockiani e, più tardi, agli hackers e alle realtà virtuali, forma piuttosto la cifra multilivello di un artista seminale che ha lasciato dietro di sé una filmografia sterminata e rare interviste.
Nel centenario della sua nascita pubblichiamo la sua nota all’edizione inglese di Immemory (1997), opera multimediale realizzata su CD-ROM, al centro di molteplici tributi artistici e critici, riedita più recentemente da Exact Change. Per la cronaca: dopo 23 anni la rete ha conservato memoria di Immemory e i files originali, realizzati da Marker su Mac con Hyperstudio, si possono ancora scaricare qui. Un video anonimo della sua navigazione è invece disponibile qui. (f.m.)
Immemory
Nei nostri momenti di fantasticheria megalomane, tendiamo a vedere la nostra memoria come una sorta di libro di storia: abbiamo vinto e perso battaglie, scoperto e abbandonato imperi. Per lo meno siamo i personaggi di un romanzo epico (“Quel roman que ma vie!”, disse Napoleone). Un approccio più modesto e forse più fruttuoso potrebbe essere quello di considerare i frammenti di memoria in termini di geografia. (1) In ogni vita troveremmo continenti, isole, deserti, paludi, territori sovrappopolati e terrae incognitae. Potremmo disegnare la mappa di un tale ricordo ed estrarne immagini con maggiore facilità (e veridicità) che da racconti e leggende. Che il soggetto di questo ricordo debba essere un fotografo e un regista non significa che la sua memoria sia essenzialmente più interessante di quella del prossimo uomo (o della prossima donna), ma solo che ha lasciato delle tracce con cui si può lavorare, contorni per disegnare le sue mappe.
Immaginate centinaia di fotografie che per la maggior parte non sono mai state mostrate (William Klein dice che, alla velocità di 1/50 di secondo per scatto, il lavoro completo del fotografo più famoso dura meno di tre minuti). Immagina i “tagli” che un film lascia dietro di sé come le code di una cometa. Da ogni paese visitato ho portato a casa cartoline, ritagli di giornale, cataloghi, a volte poster strappati dai muri. La mia idea era di immergermi in questo vortice di immagini per stabilirne la Geografia.
La mia impressione professionale era che qualsiasi ricordo, una volta che è abbastanza lungo, è più strutturato di quanto sembri. Che dopo una certa quantità, foto apparentemente scattate per caso, cartoline scelte secondo uno stato d’animo passeggero, iniziano a tracciare un itinerario, a mappare il paese immaginario che si stende davanti a noi. Esaminandolo sistematicamente, ero sicuro di scoprire che l’apparente disordine delle mie immagini nascondeva un grafico, come nei racconti dei pirati. E lo scopo di questo disco sarebbe quello di presentare la “visita guidata” di un ricordo, offrendo allo stesso tempo al visitatore la possibilità di una navigazione casuale. Quindi, benvenuto in “Memory, Land of Contrasts”, o meglio, come ho scelto di chiamarlo, Immemory.
“Ma quando nulla sussiste da un lontano passato, dopo che le persone sono morte, dopo che le cose sono rotte e disperse, ancora, solo, più fragili, ma con più vitalità, più inconsistente, più persistente, più fedele, l’odore e il sapore delle cose resta sospeso a lungo, come anime, pronte a ricordarcelo, aspettando e sperando il loro momento, tra le rovine di tutto il resto; e sopportare inalterabile, nella goccia minuscola e quasi impalpabile della loro essenza, l’edificio infinito del ricordo. “
Swann’s way
A ciascuno la sua madeleine. Per Proust era quella di zia Léonie, quella che la pasticceria Védie di Illiers sostiene ancora di fare dalla ricetta originale. (Ma che dire poi dell’altra pasticceria, dall’altra parte della strada, che pretende anche di essere la vera guardiana delle “madeleines di zia Léonie”? Il percorso della memoria si dirama già.) Per me è un personaggio di Hitchcock. L’eroina di Vertigo. E mi rendo conto che potrebbe essere una forzatura del testo a far vedere l’intenzione di uno sceneggiatore in questa scelta di nome (Madeleine Elster ndr), all’inizio di una storia che è essenzialmente quella di un uomo alla ricerca del passato. Ma allora? Le coincidenze sono gli pseudonimi della grazia per coloro che non le riconoscerebbero altrimenti.
Al tempo della Recherche, la fotografia era ancora agli inizi e le persone spesso si chiedevano, come nel pezzo di Kipling, “Is it Art” ? (2) L’arte stessa ha per Proust e la sua generazione una funzione molto più alta dell’umile dovere di sentinella: doveva essere un collegamento con l’altro mondo, quello del pezzetto di muro giallo. Ma oggi, potrebbe paradossalmente essere la volgarizzazione, la democratizzazione dell’immagine che le consente di raggiungere lo status meno ambizioso di una sensazione portatrice di memoria, una visibile varietà di odori e sapori? Proviamo più emozione (in ogni caso, un’emozione diversa) davanti a una fotografia amatoriale legata alla nostra storia di vita che davanti al lavoro di un Grande Fotografo, perché il suo dominio è parte dell’arte, e l’intento dell’oggetto-souvenir resta al livello più basso di storia personale.
Jean Cocteau ha parafrasato tutto ciò in modo abbastanza umoristico quando ha evocato Cosima Wagner più commossa nella sua vecchiaia dalla “Belle Héléne” di Offenbach che dall’”Anello dei Nibelunghi” di suo marito. «Siegfried, il Rheinegold, sono ciò che protegge un uomo, ciò che gli impedisce di morire. Ma Offenbach era la moda, la giovinezza, il ricordo di Tribschen, i momenti di gioia, Nietzsche che scriveva a Rée: andremo a Parigi e li vedremo ballare il cancan … Mme Wagner avrebbe potuto ascoltare il Götterdämmerung senza tremore. Ha pianto alla marcia dei re.” (Carta bianca). Pretendo per l’immagine l’umiltà e i poteri di una madeleine. (3)
Riguardo alla struttura di Immemory, tutto quello che posso fare è mostrare alcuni strumenti da esploratore, la mia bussola, i miei telescopi, la mia brocca di acqua potabile. Con il passare delle bussole, ho guardato molto indietro nella storia per orientarmi. Curiosamente, non c’è nulla nel recente passato che ci offra davvero modelli di ciò che potrebbe essere la navigazione del computer sul tema della memoria. Tutto è dominato dall’arroganza della narrativa classica e dal positivismo della biologia. “The Art of Memory”, invece, è una disciplina antichissima, che – ironia della sorte – è caduta nel dimenticatoio con l’allargarsi del divario tra fisiologia e psicologia. Alcuni autori antichi avevano una visione più funzionale dei meandri della mente: Filipo Gesualdo, nella sua Plutosofia (1592), propone un’immagine della memoria in termini di arborescenza che è puro computerese. Ma la migliore descrizione del contenuto di un CD-Rom è la scrittura di Robert Hooke (l’uomo che intuì le leggi di gravitazione prima di Newton, 1635-1702):
“Adesso costruirò un modello meccanico e una rappresentazione sensibile della Memoria. Suppongo che ci sia un certo luogo o punto nel cervello dell’uomo in cui l’Anima ha la sua sede principale. Per quanto riguarda la posizione precisa di questo punto, non dirò nulla al momento e oggi postulerò solo una cosa, ovvero che esiste un tale luogo dove tutte le impressioni fatte dai sensi sono convogliate e alloggiate per la contemplazione, e più non sono che Movimenti di particelle e di corpi ”. (4)
In altre parole, quando ho proposto di trasferire le regioni della Memoria in zone geografiche piuttosto che storiche, mi sono involontariamente sintonizzato con una concezione familiare a certe menti del diciassettesimo secolo e totalmente estranea al ventesimo secolo.
Da questa concezione deriva la struttura del disco, suddivisa in “zone”. L’esempio sopra citato, quello della madeleine diventa Madeleine, consentirà uno schizzo della loro topografia. Il “punto” della Madeleine (come direbbe Hooke) si trova all’incrocio tra le zone di Proust e Hitchcock. Ognuna di esse si interseca a sua volta con altre zone che sono tante isole o continenti, di cui la mia memoria contiene le descrizioni, e i miei archivi, le illustrazioni. Ovviamente questo lavoro non costituisce in alcun modo un’autobiografia e mi sono permesso di andare alla deriva in tutte le direzioni. Tuttavia, se hai intenzione di lavorare sulla memoria, potresti anche usare quella che hai sempre con te.
Ma il mio più grande desiderio è che ci possano essere abbastanza codici familiari qui (la foto di viaggio, l’album di famiglia, l’animale totem) che il lettore-visitatore possa venire a sostituire impercettibilmente le mie immagini con le sue, i miei ricordi con i suoi e che il mio Immemory dovrebbe servire da trampolino di lancio per il suo pellegrinaggio in Tempo Ritrovato (5)
Note
- Henri Langlois, il leggendario fondatore della Cineteca francese, ricordava che da bambino non capiva il tempo. Quando lesse che “Giovanna d’Arco pose l’assedio a Parigi”, pensò che fosse un’altra Parigi, e che quindi doveva esserci la Parigi di Giovanna d’Arco, la Parigi di suo padre e così via, su un globo illimitato.
- “Quando il lampo di un sole appena nato cadde per primo sul verde e l’oro dell’Eden, / Nostro padre Adamo si sedette sotto l’Albero e grattò con un bastone nello stampo. / E il primo schizzo rozzo che il mondo aveva visto era gioia per il suo cuore potente, / Finché il Diavolo sussurrò dietro le foglie: È carino, ma è Arte? ‘”(The Conundrum of the Workshops)
- Questo paragrafo era già stato scritto quando il libro abbagliante di Brassaï, “Marcel Proust sous l’emprise de la Photographie”, fu pubblicato da Gallimard. Qui la risposta è data dallo stesso Proust: “Vedendo queste tavole, si può rispondere che la fotografia è davvero un’arte” (Essais et articoli). E Brassaï scrive: “Quando è colpito da un suono o da un sapore che ha il misterioso potere di ravvivare una sensazione o un’emozione, è irresistibilmente attratto dal paragonare questo fenomeno alla comparsa dell’immagine latente in un bagno di fluido in via di sviluppo”. Ma si dovrebbe davvero leggere l’intero libro, dove la Recherche è paragonato a “una gigantesca fotografia”.
- Devo questa citazione, tra l’altro, al meraviglioso libretto di Jacques Roubaud, “L’Invention du fils de Leoprepes”.
- Il linguista tedesco Harald Weinrich introduce un’idea sottile, quella della “guerra tra memoria e ragione” in cui, dice, la filosofia illuminista consacrò il trionfo della seconda. “Emile non deve sapere niente a memoria.”