Giuseppe Lupo, Gli anni del nostro incanto, Marsilio, pp. 156, euro 13,60 stampa, euro 9,99 ebook
Giuseppe Lupo è uno storico della letteratura che si interessa principalmente alla contemporaneità, al secondo Novecento, e in particolare a quegli scrittori che hanno raccontato il decollo industriale italiano – il cosiddetto «boom economico» – il quale, nel giro di un decennio o poco più, ha portato l’Italia a sedere al tavolo dei paesi più sviluppati. Ottieri, Arpino, Buzzi, Volponi, per citarne solo una manciata, fanno parte degli autori a cui Lupo ha dedicato grande attenzione e su cui ha scritto pagine degne di grande interesse.
Ma perché parlare del Lupo storico della letteratura quando abbiamo di fronte il suo ultimo romanzo, il quale ha ricevuto, ex equo con Fabio Genovesi del Mare dove non si tocca (Mondadori), il Premio Viareggio-Rèpaci 2018? Ebbene, perché la prima sensazione che si ha è quella di uno studioso che per anni ha frequentato un mondo fatto di sigle, marchi e slogan pubblicitari, materiale di un immaginario industriale che si andava costruendo, e abbia deciso di utilizzarlo come tessuto per filare il proprio romanzo.
Gli anni del nostro incanto non è un romanzo propriamente industriale; i protagonisti, anche se attraversano il mondo della fabbrica e sopravvivono grazie ad esso – il padre è una tuta blu – non raccontano direttamente la vita alla catena di montaggio, l’alienazione, le lotte sindacali. È piuttosto un’epopea familiare che attraversa un intervallo più o meno felice della recente storia italiana, la quale prende le mosse da una fotografia messa dall’autore in copertina e a cui il lettore è costretto a tornare continuamente.
La stagione del benessere è una luce che brilla in modo diverso negli occhi dei membri di questa famiglia italiana, ritratta a cavallo tra gli anni Cinquanta e Ottanta. La madre, la quale ha perso improvvisamente la memoria e rappresenta il «motore immobile» della narrazione, poiché la figlia le racconta alcune tappe della loro vita nel tentativo di fargliela tornare, osserva questa epoca gloriosa con sguardo libidinoso, desiderosa di possedere gli oggetti pubblicizzati dagli slogan (alcuni anche rievocati dalla narratrice: «Ava come lava!», p. 25), quasi fossero una prova tangibile della felicità post-bellica (dimensione peraltro pressoché assente dal romanzo). Il padre, abbacinato dai progressi tecnologici e sedotto da una Milano locomotiva economica e tecnologica del Paese, la «Milano alta» come ama ripetere, è affascinato dal mondo che si spalancava sul versante orientale della cortina di ferro, tanto da essere chiamato Louis il sovietico, quando non era detto Louis l’atomico altro termine-chiave del tempo; egli è ritratto con lo sguardo continuamente rivolto al cielo trapunto di stelle (come direbbe Modugno, altro grande interprete dell’epoca) tra le quali, di tanto in tanto, spunta un satellite che scatena in lui l’immaginario più fervido. Negli occhi del fratello minore, Bart l’Indiano, brilla invece la luce viva dell’inquietudine e della rivolta, che si concretizza nei piccoli passi che lo allontanano dalla famiglia, prima verso il seminario alla ricerca della verità sulla morte di Dio, poi per le strade occupate da barricate e attraversate dal sibilo sinistro delle pallottole. Sulle spalle dell’Indiano pesa il passato di piombo del Paese, gli attentati, i sequestri, l’oscurità di un’Italia frantumata dalle stragi, come quella di Piazza Fontana, che si vede sullo sfondo della fotografia in copertina. Nel testo però tutti questi elementi rimangono solo accennati, un’ombra che tocca di sfuggita i volti felici di un’Italia in crescita. Gli occhi della sorella maggiore e narratrice, infine, sono quelli che brillano di meno, occupata com’è a decostruire la fotografia e a intrecciare avvenimenti e parole.
Giuseppe Lupo con Gli anni del nostro incanto accetta la sfida di raccontare un periodo che oggi, tra i timori dello spread e il governo del cambiamento, appare quanto mai distante. Egli rifugge gli stilemi un po’ alla moda del noir e deliberatamente non vuole raccontare le sparatorie, le stragi, i misteri; isola gli aspetti positivi, addirittura «incantevoli», dell’ascesa italiana tra i grandi del pianeta e si concentra su quelli, adoperando una lingua semplice, quasi dimessa, ma non piatta, costruendo metafore volutamente poco ardite e immagini essenziali, che però sono il segno tangibile dello sforzo mimetico compiuto dall’autore per riprodurre il parlar (e il pensar) modesto di una famiglia d’immigrati nella grande Milàn, che fonda il proprio immaginario su un materiale culturale di massa, con tutti i limiti e le distorsioni che implica, come ad esempio un certo maschilismo strisciante che porta la narratrice a indicare, come elementi fondamentali nella relazione uomo-donna, solamente i più esteriori, quali «le gambe […], forse la morbidezza dei capelli, forse il sorriso spalancato allo scintillio dei negozi» oppure la cedevolezza verso quel ruolo eterno di madre da cui le donne, soprattutto in quegli anni, cercavano di affrancarsi («quel beato modo che noi donne abbiamo quando vogliamo far credere agli uomini di essere il prolungamento della vita precedente, una seconda madre, un’altra nuova madre», p. 24).
Attraverso il chiaroscuro con cui Lupo tratteggia un’Italia in fin dei conti ancora a noi vicina, egli vuole sottolineare l’importanza della memoria e il necessario impegno per allenarla, vuole indicare il pericolo sempre imminente di perdere le tracce, di smarrirsi, d’essere preda d’una terribile malattia, soprattutto in un periodo storico in cui troppo facilmente il meme sostituisce il rigore della ricostruzione storiografica, il grido sostituisce il dialogo, l’insulto prende il posto della riflessione comune.