Nata a Pordenone nel 1978, la ‘Libreria al Segno’, con le sue quattro sorelle sparse nel territorio provinciale è una ‘libreria pesante’ nel panorama italiano delle librerie indipendenti. Continuiamo qui a Nord Est la nostra inchiesta: quanto una realtà di questo genere è rimasta fedele al suo progetto iniziale di “proposta alternativa” nel meccanismo della distribuzione? Come ha resistito alla crisi del mercato del libro e con che differenze rispetto ai piccoli librai? Ne abbiamo parlato con Mauro Danelli, fondatore della libreria.
PULP: La “Libreria al Segno” ha ormai una lunga storia. Ce la racconti?
MD: La “Libreria al Segno” inizia il suo cammino nel 1978 a Pordenone. Non era un momento qualsiasi per il nostro paese: eravamo nel pieno degli ‘anni di piombo’. Aprire una libreria in quei frangenti poteva anche porsi come un ‘segno rivoluzionario’ o almeno come una ‘proposta alternativa’: contrapporre alle armi i libri, sostituire un’azione violenta destinata al fallimento con una resistenza nonviolenta votata alla formazione. E di resistenza si è trattato veramente, in un mondo che nei decenni successivi ha subito una trasformazione formidabile e a ritmi sempre più veloci. Si è inevitabilmente concretizzato quel processo di ‘mutazione antropologica’ che Pasolini andava denunciando negli anni precedenti. Il seme di quella resistenza stava già nel nome della libreria, legato al rapporto tutt’altro che formale tra ‘segno’ e ‘significato’: la libreria intesa come contenitore di libri, che sono contenitori di segni, che sono contenitori di significati, che sono contenitori di messaggi. Il messaggio principale nel ‘mestiere’ del libraio doveva e deve essere quello di offrire alla società un servizio capace di sublimare l’aspetto commerciale a salvaguardia del libro quale strumento di crescita civile, culturale, etica.
PULP: Siete un gruppo di lavoro ormai consolidato da anni, come siete organizzati?
MD: Abbiamo cercato di mettere in pratica all’interno della libreria un tipo di ‘conduzione ideale’ che potremmo virtualmente ricondurre ad una conduzione di tipo tribale (potremmo pensare ad una tribù degli indiani d’America) basata non sull’autorità di un leader bensì sull’autorevolezza di una guida legata a una sorta di prestigio basato su capacità e meriti da confermare costantemente (ne scaturisce per forza un vero principio democratico: nel momento in cui il gruppo non riconosce più questo prestigio la guida va subito cambiata). È mia convinzione che da questa impostazione del lavoro di gruppo in gran parte siano dipesi i buoni risultati conseguiti nel corso di questo nostro quarantennio. In totale mancanza di ‘capitale’ solo questo spirito ha reso possibile il potenziamento graduale della libreria di Pordenone e in seguito l’apertura delle quattro sorelle (a Portogruaro nel 1989, a Sacile nel 1993, a San Vito al Tagliamento nel 2010 e a Cordenons nel 2012), dando vita ad una ‘piccola catena’ in cui lavorano 14 persone e 2 collaboratori, con esiti piuttosto soddisfacenti. Si è trattato di un percorso virtuoso che ha permesso di resistere al periodo di grande turbolenza iniziato per il mondo libraio italiano intorno al 2000 ed esploso con la crisi del 2009, una crisi che d’altra parte ha investito un po’ tutti i settori d’impresa.
Anche il progetto della libreria è stato sottoposto a continua riflessione, senza la possibilità di fermarsi ma cercando continuamente un equilibrio tra il proprio progetto e le aspettative esterne, per capire quale tipo di libreria viene ricercato e trarne le conseguenze (certo, se il tipo di libreria richiesto alla fine diventerà troppo diverso dal progetto ideale, che è quello fin qui delineato, allora occorrerà riflettere seriamente se e come continuare).
PULP: La crisi delle librerie indipendenti fra ‘librerie pesanti’ e piccole librerie
MD: Premetto che quando parlo di ‘libreria pesante’ (come è la nostra) intendo un tipo di libreria (attenzione, parliamo sempre di libreria indipendente) capace di svolgere un ruolo determinante nel mondo del libro italiano, ritenendo che per essere tale dovrebbe oggi avere queste caratteristiche: una superficie di almeno trecento metri quadri, una dotazione di almeno quarantamila titoli, una strutturazione in almeno venti settori differenziati, un fatturato di almeno un milione e mezzo di euro annui. Ebbene, in Italia nel 1990 esistevano circa seicento di queste librerie pesanti e sicuramente si poteva parlare di una massa di librerie indipendenti piuttosto importante. Nel 2005 il numero era passato a circa duecento e già a questo punto la massa aveva perso molta della sua rilevanza. Oggi stentiamo a contare in tutto il paese una cinquantina di queste librerie e dunque possiamo dire che la massa ha ormai un impatto veramente poco interessante. È evidente che il mondo editoriale italiano ha spostato ormai altrove la gran parte del suo peso.
Questo comporta anche un certo modo di porgere il libro: domandiamoci se il modo preferibile può essere quello offerto dal mondo ‘manipolatore’ di Amazon o da quello ‘manipolato’ delle librerie di catena. Io continuo a pensare che la soluzione preferibile sia quella di un vasto universo di librerie indipendenti: una galassia variopinta di librerie caratterizzate tutte, piccole o grandi che siano, da originalità, diversità, ricchezza di proposte e contenuti, con librai capaci di produrre stimoli, riflessioni, occasioni di confronto e dialogo.
Il nostro paese ha tranquillamente assistito alla chiusura di più del 40% delle librerie indipendenti, tra cui anche librerie centenarie che rappresentavano un importante patrimonio per il paese (possiamo ricordare la Italo Svevo di Trieste, la Draghi Randi di Padova, la Croce di Roma, la Guida di Napoli… e abbiamo fatto solo un piccolo, parziale tour attraverso l’Italia delle librerie che non ci sono più). Naturalmente non può non esserci un legame tra tutto questo e il fatto che il nostro paese sia arrivato al pessimo dato del 60% di non-lettori (vale a dire persone che non leggono neppure un libro all’anno), ponendoci tra gli ultimi in Europa, mentre probabilmente siamo tra i primi nell’organizzazione di festival letterari.
Nel frattempo hanno aperto tante librerie di catena di proprietà dei grossi editori; librerie che appartengono al mondo del capitalismo finanziario e che rispondono sempre più alle regole dello stesso. Siamo arrivati al punto in cui pare sia più importante far circolare i libri piuttosto che venderli. Non si spiegherebbe altrimenti questa forte sovrapproduzione, questa massa di libri che rimangono invenduti per finire a remainder o al macero. Un movimento che ha dei costi per gli editori, soprattutto quelli piccoli e medio piccoli e per i librai, soprattutto quelli indipendenti, ma che evidentemente è funzionale ai grossi gruppi editoriali, i quali appaiono innanzitutto come delle vere e proprie “holding finanziarie”, capaci di guadagnare sul non venduto e di rendere plausibili anche le perdite. Naturalmente ben poco possiamo aspettarci dall’attuale classe politica che non pare dare molta importanza alla cultura e alla lettura (ma forse la cultura non passa più attraverso la lettura?). Si prendono pochi provvedimenti, e quei pochi risultano perlopiù irrazionali quando non addirittura negativi. L’anno scorso, solo l’anno scorso, è stata finalmente varata una legge del libro che però risulta ancora molto perfettibile (in Francia la legge Lang, in vigore dal 1981 a tutela del libro e delle librerie indipendenti, appare molto più funzionale e infatti ha dato ottimi risultati, permettendo ai librai indipendenti di conservare oltre il 40% del mercato, mentre in Italia sono arrivati ad un 18% scarso, col rischio di un ulteriore sgretolamento annuale). A Pordenone, nonostante un fervore culturale piuttosto interessante, in pochi anni abbiamo visto chiudere ben sette punti vendita, e di nuovi non ne sono nati. Questo è accaduto un po’ in tutte le città italiane.
PULP: Amazon il più grande nemico?
MD: Si tende ad attribuire la responsabilità di tutto ciò al commercio elettronico, mentre in realtà per noi librai indipendenti il primo problema è dato dalle librerie di catena editoriali (Feltrinelli, Giunti, Ibs, Ubik…) che hanno conquistato il 45% del mercato (passato l’anno scorso, per effetto della pandemia, al 37%) e che evidentemente possono esercitare un tipo di concorrenza assolutamente schiacciante e, proprio a salvaguardia della stessa, sono sempre state ostili ad una rigorosa legge del libro. Il commercio elettronico, sempre per effetto della pandemia, l’anno scorso è passato dal 22% al 36% di mercato ed è ovviamente in continua espansione. Una buona fetta dello stesso è in mano ad Amazon, ma tra i suoi protagonisti ci sono ancora i grossi gruppi editoriali (credo si possa dire che nel nostro paese gli editori vendono direttamente i loro libri per una porzione forse superiore al 50%: questa è cosa che non accade negli altri paesi europei). E siamo in attesa dello sviluppo del digitale, che per il momento non ha prodotto effetti determinanti. In questa situazione non facile noi stiamo resistendo e speriamo di poter lo fare ancora per un po’: «Resistere per esistere, ma anche per essere». Fin qui qualcosa abbiamo realizzato.
PULP: Hai citato i festival letterari mettendoli quasi in contrapposizione con la lettura, non ti pare un paradosso?
MD: I festival letterari insieme a molte altre espressioni sociali, politiche, culturali stanno spostando il livello culturale sempre più sul piano dello spettacolo e del consumo perdendo di vista non di rado il livello della qualità e dell’impegno (lo spiega molto meglio di me Goffredo Fofi nel libro L’oppio del popolo – Eleuthera).
Questo non significa essere contro i festival letterari, ma mettere in guardia sul fatto che non tutto è così positivo e soprattutto sfatare questa idea della “ricaduta” sulle librerie (non è proprio così e quanto accaduto in questi venti anni, con dati alla mano, lo dimostra ampiamente. Poi è chiaro: ogni libreria o sistema di librerie fa una sua lettura e ha le sue risultanze).
Pulp: E con il Covid e i conseguenti lockdown come è andata? Qual è il vostro bilancio?
MD: Le cinque settimane di chiusura dell’anno scorso hanno rappresentato un grosso problema, soprattutto per le librerie di dimensioni non piccole. Noi ci siamo salvati lavorando sodo sul piano delle rese (quindi restituendo i libri agli editori. La ripresa è partita lentamente ma poi ha funzionato. Per evidenti motivi, abbiamo avuto grossi problemi anche nel periodo natalizio (e ancora una volta questi problemi si sono fatti maggiormente sentire a seconda delle dimensioni delle librerie). Alla fine possiamo dire di aver recuperato abbastanza e di essere soddisfatti. Sarebbe immorale sostenere il contrario guardando ai problemi gravi, gravissimi di tante altre attività.
PULP: A differenza di molte librerie indipendenti non avete mai voluto fare presentazioni pubbliche o online, e usare i canali sociali rimanendo fedeli alla vostra impostazione iniziale, perché?
MD: Qualcosa abbiamo fatto, anche appoggiandoci a gruppi o amici locali. Non abbiamo e non facciamo di più per mancanza di spazio e di energie. Probabilmente arriverà la necessità di dare più spazio a queste ed altre espressioni lavorative. Rimanere fedeli all’impostazione iniziale (che comuque non pare essere così negativa finché i risultati danno ragione) non vuole dire ignorare altre strade che al momento opportuno potranno e dovranno essere prese.
PULP: Cosa pensate di Bookdealer e Libri da Asporto? Siete su queste piattaforme? Possono essere uno strumento di difesa per le librerie indipendenti?MD: Anche rispetto a questi strumenti restiamo in attesa di futuri sviluppi e di precisi nostri bisogni. Si tratta senz’altro di iniziative interessanti che però devono confrontarsi con un mercato molto difficile e con la nota scarsa propensione di noi italiani alla buona organizzazione.
PULP: Chi sono i vostri lettori clienti? Avete un ricambio generazionale? Che differenza fra i vecchi e i nuovi clienti?
MD: Giovani che entrano in libreria, e non solo per motivi di studio, fortunatamente ce ne sono: più che di ricambio preferirei parlare di estensione generazionale, nel senso di vedere convivere varie generazioni di lettori: naturalmente i giovani sono più aperti ai cambiamenti ed anche alle mode editoriali, ma alla fine pare che gli interessi e le preferenze degli uni e degli altri possano convergere verso un dialogo coerente.
Possiamo contare su tanti clienti che capiscono il nostro modo di lavorare e con i quali è possibile condurre un dialogo continuo e portare avanti un reciproco percorso di crescita. Clienti che ci comprendono quando affermiamo che per noi fare i librai è un mestiere ma pure un po’ una missione (tra l’altro non avendo la pretesa di monetizzare in pieno tutte le ore di lavoro e la fatica conseguente). Clienti che magari desidererebbero il salottino o almeno lo spazio–caffè, ma poi capiscono che la libreria deve soprattutto avere tanti libri e dare svariate risposte. Clienti per i quali sarebbe comodo trovare in libreria anche altre cose (ci sono negozi, soprattutto di catena, che trattano largamente il non–book, dal quaderno alla saponetta alla bottiglia di vino…), ma poi capiscono che il libraio, anziché diventare un droghiere, deve conservare il ruolo di uno che ama i libri e li tratta di conseguenza. Clienti che ci rendono meno faticoso e più accettabile il fatto di dover fare tanto lavoro a vuoto, trattando migliaia di libri che prima o poi si rivelano inutili. Clienti che magari considerano il nostro atteggiamento ‘donchisciottesco’, ma poi finiscono con l’apprezzarlo. Insomma, quelli che noi consideriamo non semplici clienti ma clienti–amici se non proprio amici–clienti. Finché loro ci vorranno e ci accetteranno così, noi ci saremo e resteremo così.