C’era una volta l’Utopia: il nessun-luogo dell’umanesimo rinascimentale, Thomas More che prendeva la Repubblica di Platone e la metteva sull’isola di Atlantide — da essa tutte le utopie prendono oggi nome, non solo quelle che vennero dopo, come La città del Sole di Tommaso Campanella, ma persino quelle che la precedettero cronologicamente come la Cité des Dames di Christine de Pizan.
La stessa strada fu percorsa da molto altri. Nelle loro intenzioni portava a una società migliore, rigenerata, perfetta. La parola utopia è divenuta sinonimo di mondo ideale, il migliore dei mondi possibili si dirà in seguito — e per i detrattori, o per i realisti pragmatici, la parola acquisì anche un significato denigratorio, un bel sogno irrealizzabile per incorreggibili idealisti: ma questa è utopia!
Nascita dell’anti-utopia
Venne poi la distopia. All’inizio si diceva anti-utopia, o utopia negativa, poi prevalse l’etimologia ricalcata dal greco, dys-tópos, il luogo negativo. Tutto ebbe dunque inizio in contrapposizione all’utopia, e forse non ci sarebbe mai stata senza la sua gemella idealista. Le tappe sono conosciute; solo per fare qualche titolo, Il tallone di ferro di London, Noi di Zamjatin, Il mondo nuovo di Huxley, La notte della svastica di Burdekin, Kallocaina di Boye e poi naturalmente 1984 di Orwell, pietra di paragone per tutte le distopie.
Cosa sia, è presto detto. Un aspetto negativo del presente viene proiettato su un tempo futuro, assume caratteristiche assolute in grado di modificare drasticamente la struttura della civiltà, con la stessa funzione del novum nella fantascienza: il risultato è una società oppressiva, totalitaria, con un controllo paranoico persino sulla coscienza del singolo — il peggiore dei mondi possibili, per contrasto.
Una riflessione sulla distopia del Novecento si sviluppa soprattutto nell’ultimo quarto del secolo, parte da Orwell e a Orwell ritorna. Considerata la natura delle sue ambientazioni, un futuro più o meno lontano, l’anti-utopia suscita l’interesse degli scrittori di fantascienza, ma tra gli scrittori di genere rimane per lungo tempo un’opzione minore: gli appassionati la considerano al massimo un “compagno di viaggio” che date certe affinità percorre la stessa strada. Occorrerà un quarto di secolo prima che Il racconto dell’ancella di Atwood venga accettato dai lettori di Urania; diversa la fortuna di Fahrenheit 451, ma per cinquant’anni nessuno lo definisce “distopia”. Contemporaneamente, la fantascienza fa invece proprio un filone in cui la convivenza civile è stravolta non da un potere totalitario, bensì da un evento traumatico con conseguenze globali: è il post-catastrofico che specula su disastri climatici, pandemie devastanti, effetti di incidenti batteriologici o di guerre mondiali con armi radioattive, e via dicendo — più affini a un novum scientifico-tecnologico, e dunque più semplici da digerire per gli appassionati di genere. Per citare qualche titolo del filone post-apocalittico: Io sono leggenda di Matheson, Morte dell’erba di Christopher, Cronache del dopobomba di Dick.
L’immaginario distiopico
Con il volgere del millennio le cose cambiano radicalmente, anche se non da un giorno all’altro. Battle Royale di Takami e soprattutto Hunger games di Collins ridefiniscono le coordinate di quello che si appresta a diventare un vero e proprio genere a se stante: nasce il distopico, con un pubblico che solo parzialmente si sovrappone ai lettori di fantascienza. Innanzitutto assume caratteristiche young adult, con un target completamente differente dalle precedenti opere distopiche, rivolte a un pubblico maturo, in grado di comprendere l’ammonimento contenuto nel testo e i riferimenti all’attualità politica.
In secondo luogo, come conseguenza, l’immaginario distopico si svincola da implicazioni politiche, e si concretizza in un libertarismo di maniera che possiede il carattere di una contrapposizione generazionale. L’azione narrativa è individualista, iniziativa del protagonista, oppure di un ristretto gruppo di personaggi che non sono un’avanguardia rivoluzionaria bensì eroi isolati che si oppongono allo statu quo perché interferisce con la loro vita, non in nome di principi ideali o ideologici.
In uno tra i romanzi che più hanno influito sulle caratteristiche del nuovo distopico, La strada di McCarthy, la natura dell’apocalisse della civiltà rimane addirittura non specificata: il monito politico-sociale scompare completamente, i protagonisti si muovono in un’ambientazione ridotta a pochi elementi essenziali in cui gli altri personaggi sono presenze ostili. È la vecchia filosofia dell’homo homini lupus estesa all’intero teatro della civiltà che non esiste più — il “tutti contro tutti” che oltre a rappresentare il non plus ultra dell’individualismo, impone una filosofia innaturale: l’idea cioè che nelle situazioni di stress estremo, di pericolo generalizzato, ognuno pensi alla propria sopravvivenza invece di unire le forze. Il distopico si è fatto assoluto, non ha più bisogno di giustificazione esterna — monito, denuncia, critica — lo status quo di una società disgregata è dato per scontato, e di per sé è giustificazione per la trama.
In un famoso intervento in Against interpretation, intitolato L’immaginazione del disastro, Susan Sontag, oltre a affermare che viviamo in un’età di estremismi, sotto la minaccia continua di due destini opposti ma terrorizzanti (banalità costante e terrore inconcepibile), puntava il dito sul cinema di fantascienza (o di effetti speciali) e la sua filosofia del disastro. Come il distopico oggi, la cinematografia del disastro rifletteva un’ansietà condivisa, e contribuiva a placarla facendo subentrare una significativa apatia nei confronti del problema.
“Il livello naïf dei film tempera perfettamente il senso di alterità, di alienità, con il grossolanamente familiare” scriveva Sontag, e la formula si può applicare al nuovo distopico come genere. Come il disaster movie, il distopico ha a che vedere con l’impensabile: impensabile la fine della civiltà, la decimazione dell’umanità, il tutti-contro-tutti — ma in questo modo la narrativa perpetua cliché su individualismo, identità, potere, consenso e dissenso, e sulla natura del contratto sociale.
Dal Cyberpunk al nuovo distopico
La fine degli anni Novanta ha visto venir meno la marea cyberpunk, e l’assorbimento della sua estetica nel nascente distopico. Conurbazioni degradate, paesaggi totalmente antropizzati, dominio incontrastato di un capitalismo sovranazionale, tecnologia avanzata e incomprensibile, molto di questo si trasferisce nel nuovo genere. Il cyberpunk partiva tuttavia da un importante dato di fatto, cioè il superamento del dibattito narrativo sulla rivoluzione hi-tech, per arrivare a un’accettazione della tecnologia che permette sì un maggiore controllo sociale, ma al tempo stesso è uno strumento anche per chi vi si vuole sottrarre. Da sempre la fantascienza insegue la scienza nel tentativo di prevederla: con il cyberpunk l’ha raggiunta e superata, mostrando ai lettori che mettere in guardia dai pericoli dello “shock del futuro” di Alvin Toffler ha senso soltanto se si accetta la definitiva onnipresenza della tecnologia, la sua pervasività. Prima degli anni Ottanta era pressoché impossibile evitare un giudizio morale, implicito o esplicito, entusiasta o critico, verso le scienze applicate, verso la tecnologia.
Il nuovo distopico è dunque un genere narrativo che idealmente si ispira alle distopie del Novecento, ma che sembra più probabilmente debitore di un mercato che sente l’influenza di momentanei trend, del caso editoriale, o da gruppi di lettori e lettrici che tramite social network riescono a influenzare anche direttamente le scelte editoriali. Ricomprende tutto ciò che abbia in sé tratti anche superficiali di distopia, da Orwell a Star Wars, da Hunger Games alle varie saghe YA, insomma ogni scenario di futuro peggiore del presente.
Come già accaduto negli anni Novanta con il cyberpunk, anche per effetto del cinema, la distopia è tracimata fuori dalle mura del “ghetto” della fantascienza; tuttavia, mentre l’immaginario cyberpunk rimase riconoscibile come science fiction, il distopico riesce a affrancarsi. Molti lettori, che si sono appassionati dopo il successo commerciale di serie TV e saghe avventurose, quando non addirittura romance, basate sui presupposti della distopia, affermano di non amare la fantascienza.
È anche vero che autrici e autori non di genere utilizzano senza imbarazzo scenari distopici, pur senza sposarne gli stereotipi narrativi: indagando soltanto nell’ultimo anno editoriale, notiamo sia firme che da sempre frequentano la fantascienza o che dal fandom provengono, come Nicoletta Vallorani (il noir distopico Avrai i miei occhi, 2020), che nomi come Laura Pariani (il post-catastrofico Apriti, mare, 2021) e persino un’autrice apparentemente lontanissima come Sabina Guzzanti (2119 la disfatta dei Sapiens, 2021).
Questo meccanismo di cooptazione di scenari distopici da parte del mainstream, una sorta di “istituzionalizzazione”, non significa necessariamente che la consapevolezza della concreta possibilità di un restringimento degli spazi di democrazia sia stata introiettata nella coscienza comune: mentre infatti nella distopia novecentesca l’ambientazione era la conseguenza logica delle premesse narrative, nel nuovo distopico essa rappresenta un fine e non un mezzo, una premessa scenografica per raccontare una storia, di solito dai contorni avventurosi, in cui il degrado civile-politico è dato per scontato, e il conflitto narrativo non coinvolge la natura distopica dell’ambientazione.
Come il cyberpunk dava per scontata l’onnipresenza dell’hi-tech, così il distopico parte dall’inevitabilità della catastrofe. Tuttavia, nel momento in cui perde la sua funzione di ammonimento attivo, la distopia abdica alla sua funzione critica. I lettori del nuovo distopico sono probabilmente coloro che meno credono nella realtà degli scenari di fine della civiltà che fanno da sfondo alle storie. Chi nel Novecento scriveva distopia, costruiva una metafora per mettere in guardia i lettori; chi lo fa oggi, probabilmente è perché cerca la libertà narrativa di scenari che legittimano la dissoluzione dell’organizzazione sociale — tanto è vero che poco importa la natura della catastrofe, anzi si assiste a una gara per trovare sempre nuove varianti nelle premesse “apocalittiche”.
Non deve dunque stupire il fatto che molti lettori di fantascienza trovino deprimente la narrazione distopica, e per lo stesso motivo altri lettori evitano di accostarsi a quello che viene percepito come un genere monotematico.
Dall’ utopia alla prassi: i mondi solar
Una prima reazione a questo scenari foschi ha avuto origine una decina di anni fa all’interno della fantascienza, con il Project Hieroglyph dello scrittore Neal Stephenson (in collaborazione con il Centro per la scienza e l’immaginazione dell’università statale dell’Arizona): il sottotitolo del libro che ne è il risultato, “storie e visioni per un futuro migliore” è già esplicativo dell’approccio: venti scrittori visionari con racconti “tecno-ottimisti” per “un approccio lungimirante all’intersezione tra arte e tecnologia, che ha il potere di cambiare il nostro mondo.” Il principio ispiratore di Stephenson era esplicitato in un suo precedente intervento (2011) su “Wired”, intitolato Innovation starvation: “La buona fantascienza fornisce un’immagine plausibile e completamente ponderata di una realtà alternativa in cui ha avuto luogo una sorta di avvincente innovazione. Un buon universo FS ha una coerenza e una logica interna che ha senso per scienziati e ingegneri.”
Ma la risposta più ampia agli scenari necessariamente cupi e pessimisti del nuovo distopico è quella che proviene da una nuova poetica che non nasce né dall’interno della fantascienza, né come letteratura. Si tratta del solarpunk, definizione mutata come variazione dal cyberpunk e da filoni narrativi di nicchia interni alla fantascienza (steampunk, atompunk, dieselpunk) che non rende giustizia alla varietà di ispirazioni e pratiche artistiche coinvolte: un’autentica estetica i cui termini sono ancora in divenire. Nato negli anni ’10 di questo secolo, il solarpunk si fa interprete di sentimenti e istanze che chiedono un progresso equo, ecologico, inclusivo, una visione politica anticapitalista, utopista, inclusiva, femminista, antirazzista, antipatriarcale, antispecista.
Date queste premesse, è evidente che l’utopia torna e essere un suo chiaro riferimento. Anche come reazione diretta alla filosofia del tutti-contro-tutti del nuovo distopico, chi scrive solarpunk recupera pratiche di solidarietà come quelle raccontate in A Paradise Built in Hell di Rebecca Solnit: le catastrofi producono straordinarie comunità temporanee, paradisi tra le macerie della civiltà, dove le persone si sostengono a vicenda, senza alcuna autorità superiore.
Questa non è utopia, bensì osservazione di casi verificatisi nella pratica: gli autori solarpunk non sono certo i primi a dire che l’essere umano è un animale sociale. Dinamiche di mercato editoriale, incontrandosi con gli appassionati del post-catastrofico, hanno trasformato la tradizione di denuncia sociale della distopia in un genere letterario di consumo; ma la limitata possibilità combinatoria di scenari apocalittici e il carattere fosco, pessimista del nuovo distopico rappresentano limiti narrativi che ne lasciano presagire il tramonto, o una vistosa trasformazione che ne stravolgerà il significato. Molti autori, come Cory Doctorow, partendo da uno scenario apocalittico evitano qualsiasi spettacolarizzazione sulla fine del mondo, per raccontare la difficile nascita di un’utopia. Entro breve sarà più chiaro il destino letterario del nuovo distopico.