La fine del mondo di Ernesto De Martino – di cui Einaudi ha tradotto ora l’edizione originale francese, completamente rinnovata rispetto alla prima edizione italiana del 1977 – è un progetto ambizioso, interdisciplinare, complesso, ma soprattutto incompiuto, in seguito alla scomparsa dello studioso napoletano nel 1965. Un progetto che nelle note e nei testi preliminari misura oggi il suo impatto rispetto al clima culturale “rivoluzionario” dei primi anni Sessanta, con un approccio apparentemente controcorrente rispetto all’onda destinata a scompaginare i “campi del sapere” di antropologia, psichiatria, filosofia, marxismo e altre discipline.
In Italia, De Martino, antropologo, ex allievo di Benedetto Croce, socialista anomalo poi iscritto al PCI, si rivela nel dopoguerra grazie alla riflessione sul magismo e il pianto rituale nel Meridione italiano. È un pensatore non ortodosso, originale che, a onta del manifesto eclettismo, proprio con questo progetto si propone di fornire una quadra filosofica, non solo da antropologo. Non farà in tempo a completarlo e, nei decenni successivi alla scomparsa, la sua figura sarà gradualmente accomodata nella nicchia dell’etnografia, scivolando da lì in quello speciale dimenticatoio riservato a chi è troppo avanti per i propri tempi o troppo ambizioso. Non gli viene perdonata – in parte – anche la promiscuità teorica che lo porta a fare i conti, in un colpo solo, con l’esistenzialismo di Heidegger e la “crisi della presenza”, con il pensiero tradizionalista di Mircea Eliade, con il materialismo storico, giudicato inadeguato nell’analisi della religione, giovane Marx compreso.
Il tema della fine del mondo – anticipato da De Martino in “Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche” (Nuovi Argomenti, n.69-71, 1964) – si impone nella storia della colonizzazione bianca, nella tragedia della deportazione degli schiavi africani come delle tribù aborigene australiane a contatto con la cultura occidentale, ma, in generale, emerge ovunque la coscienza culturale, colpita nel suo sistema di valori e violentemente esclusa dall’esperienza della domesticazione, si orienta verso il riassorbimento del divenire mentre “l’esperienza del crollo o la profezia della catastrofe fanno la loro comparsa“.
I primi Sessanta sono un periodo caratterizzato politicamente dalle guerre e dal processo mondiale di decolonizzazione. Nello schema di De Martino l’apocalisse provocata dal colonialismo riflette il modello generale di ogni apocalisse culturale, che si tratti del Regno annunciato dall’escatologia cristiana o delle più comuni esperienze psicopatologiche della pratica medica. O, ancora, della Fine del Mondo occidentale, dell’implosione della coscienza borghese anticipata e descritta dalle avanguardie della modernità: la rivolta di Rimbaud, la ripulsa di Lawrence, la crisi in Mann, la nausea di Sartre, l’assurdo di Camus, la noia di Moravia, il vuoto di Beckett.
Per De Martino l’incontro etnografico non è mai alla pari, ma come ogni umanesimo è eurocentrico, già nella premessa dichiarata di neutralità: il suo oggetto non può essere quindi, semplicemente, la “scienza delle diverse culture”, il confronto funzionale con l’Altro promosso dallo strutturalismo, quanto piuttosto “la scienza del loro rapporto con la cultura occidentale”.
Così il piano dell’opera, per quella che avrebbe potuto essere scritta e soprattutto per quella che si offre oggi in questa nuova, bellissima edizione, non procede a partire dall’osservazione sul campo ma piuttosto dalla riflessione filosofica lungimirante, in risposta a domande che l’attualità storica e la profondità della trasformazione culturale rilanciano quotidianamente.
A un certo punto De Martino narra l’episodio del Campanile di Marcellinara, paesino in provincia di Catanzaro dove gli capita di perdersi in auto, nel mezzo della campagna calabrese. Incontra un vecchio contadino e gli chiede di accompagnarlo fino al più vicino centro abitato in cambio di una ricompensa ma, lungo il percorso, lo vede affacciarsi dal finestrino e percepisce la sua angoscia crescente: ha perduto di vista il campanile del paese, che usa per orientarsi, e con esso il centro del suo orizzonte culturale.
La sfida – filosofica, politica – secondo De Marino, non è certo preservare il campanile e con esso assicurare la presunta integrità identitaria di ogni contrada o comunità. Al contrario “Il problema centrale del mondo di oggi appare dunque la fondazione di un nuovo ethos culturale non più adeguato al Campanile di Marcellinara, ma all’intero pianeta terra che ormai gli astronauti contemplano dalle solitudini comiche e che sta di fatto diventando per quanto attraverso contraddizioni e resistenze, la nostra patria culturale fondamentalmente unitaria, con tutta la ricchezza delle sue memorie e delle sue prospettive.”