La critica letteraria ha come suo padre nobile l’esegesi delle Sacre Scritture, in particolare dei primi cinque libri del Vecchio Testamento, il Pentateuco, la Torah. Se però la critica letteraria può anche sembrare una attività per pochi eletti – e non lo è – leggere criticamente il testo biblico per gli ebrei – anche per gli ebrei non credenti – non è mai stato un vezzo letterario, né un divertimento destinato a pochi. Nei momenti bui della storia degli ebrei – e ce ne sono stati tanti – l’esegesi biblica, come molti studiosi hanno dimostrato, rispondeva a una necessità impellente: quella di trovare nel testo della Torah una spiegazione e una giustificazione all’esilio, alle sofferenze, alle persecuzioni cui è stato sottoposto per millenni il popolo ebraico. Il popolo del patto con Dio non ha mai chiuso la sua “vertenza” con Yahweh, continuando a interrogarlo sul motivo per cui proprio al suo popolo eletto Egli riservasse le peggiori sciagure. Anche Freud sembrò rispondere a questa esigenza di trovare un significato nuovo nella Torah, in particolare nella storia dell’Esodo, quando affrontò la storia del fondatore del monoteismo ebraico, Mosè, e ne trasse uno dei suoi saggi più scandalosi e dirompenti: L’uomo Mosè e la religione monoteistica, un saggio diviso in tre parti, di cui le prime due furono pubblicate sulla rivista ufficiale della psicanalisi, Imago, nel 1937, mentre l’ultima parte fu pubblicata quando ormai Freud si era rifugiato a Londra, dopo l’Anschluss, nel 1938 (ma datata 1939). In questo saggio Freud faceva finalmente i conti con il suo ebraismo, con l’eredità e la fede dei padri, proponendo un’interpretazione profondamente revisionistica della storia biblica di Mosè e dell’Esodo degli israeliti dall’Egitto.
Leggendo questa prima versione inedita del suo saggio – ritrovata presso la Biblioteca del Congresso di Washington, pubblicata per la prima volta in Francia nel 2021 a cura di Michel Fagard e Thomas Gindele e recentemente tradotta e pubblicata in Italia da Castelvecchi – riusciamo finalmente a comprendere meglio la motivazione profonda che spinse Freud a scriverlo e a pubblicarne soltanto le prime due parti, lasciando inedita fino all’ultimo la terza parte, la più scandalosa. Non è un caso infatti che l’ultima parte del saggio di Freud su Mosè venne successivamente pubblicata con ben due premesse, che si contraddicevano l’una con l’altra. Nella prima Avvertenza, scritta prima del marzo 1938, Freud affermava senza mezzi termini che la terza parte del Mosè sarebbe rimasta inedita, in quanto era troppo pericoloso pubblicare un’ipotesi del genere in tempi così cupi per la storia dell’Europa e del mondo, anche in un paese come l’Austria in cui, prima dell’Anschluss (marzo 1938), la psicanalisi era ancora tollerata. Nella seconda Avvertenza, invece, scritta nel giugno 1938, Freud finalmente rompe gli indugi e decide di pubblicare l’ultima parte del suo saggio, dato che da neanche tre mesi si trova in esilio a Londra.
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Secondo quanto sostenuto e sottolineato da Freud in questo saggio inedito, agli ebrei non manca l’autostima (Selbstgefuhl nel testo originale). L’uomo Freud ha dimostrato tante volte di avere una grande autostima: era consapevole del suo genio e non aveva alcun timore reverenziale nei confronti delle convinzioni più consolidate, proprio come il suo amato Charles Darwin, che aveva osato sfidare la versione biblica della Creazione. Ne L’Uomo Mosè finalmente Freud, con grande coraggio, affronta il tema dell’autostima degli ebrei e cerca di individuarne le ragioni.
Già prima di Freud il tema dell’autostima ebraica era stato trattato, e gran parte degli studiosi concordava sul fatto che all’origine di questo “sentimento di elezione” c’era stato un uomo, l’uomo Mosè, che, secondo alcuni, aveva letteralmente creato gli ebrei, prima ancora che si chiamassero tali. È a Mosè che il popolo degli israeliti e poi degli ebrei deve la sua tenacia, la sua capacità di sopravvivenza, ma – ci spiega Freud nella sua Introduzione al saggio – anche molta dell’ostilità che ha incontrato e incontrerà ancora (Sezione a) del Romanzo Storico, p. 31). Mosè ha plasmato questo carattere di un popolo con una religione rigidamente monoteistica, elemento che ha contribuito a rafforzare l’autostima degli ebrei attraverso l’idea che fossero il popolo che Dio aveva scelto, un evento unico nella Storia.
Più di 40 anni fa, in vista della pubblicazione dell’edizione integrale delle Opere di Freud da parte della casa editrice Boringhieri, a cura di Cesare Musatti, lo studioso Pier Cesare Bori fece notare che esisteva una prima versione del Mosè, intitolata L’Uomo Mosè. Un romanzo storico, che Freud aveva redatto nel corso del 1934. Si trattava, a ben vedere, di uno studio sulle origini del sentimento di elezione ebraico e quindi di conseguenza – secondo l’opinione di Freud – del risentimento degli altri popoli da cui scaturirebbe l’antisemitismo e la reazione violenta a questo sentimento di elezione (L’Uomo Mosè, p. 118). Freud sosteneva in questo studio – nascondendolo sotto la veste letteraria di romanzo storico, sulla scia di Thomas Mann e della sua opera fondamentale Giuseppe e i suoi fratelli (quattro volumi pubblicati tra il 1933 e il 1943) – come fosse difficile individuare, a distanza di secoli, la natura peculiare dell’identità ebraica che secondo lui alimentava questo risentimento nei confronti degli ebrei. Fin dall’inizio del suo saggio, Freud è perfettamente consapevole della complessità e della, per così dire, “scivolosità” del problema. Freud temeva infatti – come sottolinea Giovanni Filoramo nella sua pregevole Introduzione all’edizione italiana – “che questo suo saggio potesse fornire motivi non da poco alla propaganda antisemita nazista. (….) Eppure, sostenendo che Mosè non fosse un ebreo, ma un egizio, Freud fa sì che l’identità ebraica perda il suo fondamento razziale.” Ci troveremmo dunque di fronte a un tentativo, estremamente revisionistico – come si addiceva ai tempi bui che gli ebrei e lo stesso Freud stavano vivendo – di “disinnescare” l’antisemitismo.
All’inizio di questo “romanzo storico”, titolo provvisorio, Freud opera una serie di “mosse difensive” per introdurre un’ipotesi che lui stesso sa essere estremamente improbabile e scandalosa; l’ipotesi cioè che Mosè, il profeta degli ebrei, fosse in realtà un sacerdote egizio del culto monoteistico di Athon, nome del Dio unico da cui sarebbe derivato anche l’ebraico Adonai. Per puntellare questa ipotesi così ardita, Freud comincia appoggiandosi all’autorità di un altro grande scrittore della sua epoca, Thomas Mann. Nei confronti dell’opera di Mann, Freud dimostra una grandissima ambivalenza e, potremmo dire, sulla scia della teoria di Harold Bloom sui rapporti revisionistici che si instaurano tra i grandi scrittori, una fortissima angoscia dell’influenza. Ma a un certo punto, nel 1934, Freud deve essersi reso conto che non poteva competere con il grande scrittore tedesco sul suo stesso piano e che doveva portare la sfida sul terreno che gli era più congeniale, un genere letterario che lui stesso aveva inventato, quello del saggio psicanalitico.
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Secondo l’elaborazione di Freud, come accade in molte storie dell’Antico Testamento, l’autostima del popolo ebraico potrebbe essere alla base della gelosia dei popoli confinanti, proprio come Giuda e gli altri figli del patriarca Giacobbe erano gelosi del loro fratello Giuseppe (L’uomo Mosè, p. 118). Ovviamente le motivazioni storiche erano ben altre, legate a logiche dinastiche e di gestione delle risorse territoriali, ma nella narrazione che è stata tramandata fino a oggi si possono rilevare gli elementi di questo “mito ebraico” – o forse egizio, come vedremo più avanti – e quanto sia stato storicamente utilizzato fino ai tempi di Freud e successivamente. Volendo risalire indietro nel gioco delle identificazioni antagoniste, dobbiamo tenere presente il modello letterario della Bibbia, in particolare del Pentateuco, e l’importanza centrale che aveva per Freud la figura biblica di Giuseppe. Come è noto, Freud si identificò fin dall’inizio della sua carriera con Giuseppe, riprendendo la scienza dell’interpretazione dei sogni che fu fondata dall’ebreo Giuseppe in base alla leggenda, interpretando il famoso “sogno del faraone”, e venne sistematizzata in una vera e propria tecnica interpretativa nel fondamentale testo di Artemidoro di Daldi del secondo secolo dopo Cristo.
Nel 1909, in una famosa lettera a Carl Gustav Jung, Freud si paragonò allo stesso profeta Mosè, proprio perché come lui, dopo aver guidato il suo popolo, gli psicanalisti, non avrebbe potuto raggiungere la Terra Promessa (cioè l’accettazione generalizzata della psicanalisi). A un certo punto del suo Mosè, Freud accenna alla possibile origine egizia dello stesso Giuseppe, il cui nome egizio sarebbe Osarseph (che significa “nato nella palude” o “tratto dalle acque”), ricollegandolo alla Storia dei due fratelli, celebre racconto della letteratura egizia che ha più di una analogia con la storia di Mosè e di Giuseppe. Ma qui Freud si ferma, perché si rende conto che questa sua ipotesi porterebbe a mettere in crisi, ancora di più di quanto non faccia il suo Mosè egizio, l’intera impostazione ebraica del testo biblico.
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Chi si addentra in questo testo – a tutti gli effetti un inedito di Freud, una variante del “testo sacro” preziosissima per gli esegeti futuri della psicanalisi freudiana – si ritrova nel cuore dell’identità ebraica profonda di Freud, di una scoperta apparentemente “scientifica” che in realtà lo coinvolge in modo viscerale, tanto da mascherarla dietro la veste del “romanzo storico”, una ipotesi che accarezzò per alcuni mesi nel 1934, ma che successivamente abbandonò rendendosi conto di quanto fosse debole e insostenibile questo suo meccanismo di difesa, quanto fosse evidente la sua “angoscia dell’influenza” nei confronti di Thomas Mann. Per non parlare della sua angoscia e ambivalenza nei confronti del testo biblico, il testo del misterioso autore detto lo Jahvista o J, autore (o addirittura autrice, secondo Harold Bloom) di alcune parti di Genesi, di Esodo e Numeri, quanto di più perturbante e traumatico si possa immaginare per uno scrittore e intellettuale ebreo. Come per i rabbini all’epoca delle persecuzioni, revisionare il testo biblico diventa per Freud una questione di vita o di morte, ma non può certo farlo scrivendo un “romanzo storico”, “riempiendo i vuoti della Bibbia” come aveva fatto Thomas Mann. Non era questa la strada giusta da percorrere, e infatti Freud la abbandonerà ben presto. Eppure, come fa notare Filoramo nella sua Prefazione, a differenza delle prime versioni di altri saggi, Freud si rifiuterà di cancellare e distruggere definitivamente questo suo tentativo abortito.
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La tesi del Mosè egizio poggia innanzitutto sull’origine del nome, che in antico egizio significa “bambino”, come testimoniato da alcuni nomi quali Tut-moses, Ra-moses e altri. In secondo luogo, riprendendo l’ipotesi dello studioso Ernst Sellin, Freud ipotizza che questo Mosè egizio, che propugnava un rigido monoteismo derivante dal monoteismo solare che il Faraone Akhenaton aveva cercato di instaurare in Egitto durante la XVIII Dinastia, sia stato ucciso dagli israeliti poco prima di giungere nella zona di Kadesh-Madian, un territorio posto tra il Sinai meridionale e l’Arabia Nord-occidentale, la cui popolazione, i Madianiti, adorava il Dio vulcanico Yahweh, un Dio geloso e violento, possessivo e irascibile, che successivamente sarebbe diventato il Dio di tutti gli ebrei. Dunque Freud, basandosi sull’origine egizia del nome, raddoppia la figura di Mosè, ipotizzando che siano esistiti due Mosè, il primo un sacerdote egizio sostenitore del rigido monoteismo di Akhenaton che scelse come suo popolo “un branco di miserabili profughi stranieri” (Sezione d) del Romanzo Storico), cioè gli israeliti, e che venne da essi ucciso quando giunsero a Madian, o poco prima, e un secondo Mosè, sacerdote madianita seguace della religione di Yahweh, che riuscì a riportare gli israeliti alla fede in un unico Dio, ribadendo l’elezione del popolo ebraico, sarebbe a dire facendo credere a questo gruppo di esuli che fossero proprio loro i beneficiari di un fatto unico nella Storia, un Dio che “sceglie” il suo popolo e “stringe un patto” con esso. Questo fatto unico nella Storia sarebbe all’origine, secondo Freud, della straordinaria autostima di cui godono gli ebrei in quanto popolo eletto, e della loro straordinaria capacità di sopravvivenza di fronte alle difficoltà.
In questo saggio, dunque, Freud si ripropone di infliggere una tremenda “ferita narcisistica” al “sentimento di elezione” ebraico, sostenendo che gli ebrei abbiano ucciso Mosè una volta arrivati in quell’aspra regione del Sinai meridionale, al confine con l’Arabia settentrionale.
Scorrendo le pagine di questa preziosa prima versione del Mosè di Freud, che l’editore Castelvecchi presenta corredata dalla traduzione dal francese del ricco ed esaustivo commento di Thomas Gindele – che ne fa una specie di lettura sinottica con il testo pubblicato – riusciamo finalmente a comprendere l’atteggiamento di straordinaria ambivalenza con cui Freud si accosta a una delle più celebri storie della Bibbia, la storia di Mosè e dell’Esodo dall’Egitto. In una lettera a Lou Andreas Salomé del 1935, Freud confesserà che il problema della realtà storica di Mosè lo aveva “perseguitato per tutta la vita”. Ecco uno dei motivi per cui Freud decise di non pubblicare il saggio, almeno fino al 1937. In un’altra lettera precedente del 27 ottobre 1934, Freud aveva già spiegato all’amico Max Eitington il motivo della sua forte ambivalenza e riluttanza a pubblicare il Mosè: “una parte del testo infligge gravi offese al sentimento ebraico, un’altra al sentimento cristiano: due cose che è meglio evitare nell’epoca in cui viviamo.” Freud non voleva alimentare altre polemiche contro l’ebraismo e contro il cristianesimo, proprio in un periodo in cui erano entrambi sotto attacco da parte della “nuova religione” dei nazisti, almeno secondo le strampalate idee dei circoli esoterici nazisti e del “cerchio magico” di Heinrich Himmler. Ecco spiegata dunque la genesi travagliata di quest’opera, forse la più scandalosa in assoluto tra quelle di Freud. Solo nel 1939 il “romanzo storico” del 1934 vide finalmente la luce, rimaneggiato e con un titolo diverso: L’Uomo Mosè e la religione monoteistica.
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Eppure se Freud ha deciso che questa prima versione del saggio, cioè L’Uomo Mosè. Un Romanzo Storico, dovesse essere conservata, ciò testimonia l’importanza di ciò che alla fine lo stesso Freud non ha voluto inserire nel libro pubblicato. Ecco perché ci troviamo di fronte a un testo eccezionale sul quale gli studiosi della psicanalisi, e non solo, avranno modo di confrontarsi nei prossimi decenni. È facile prevedere che sempre più in futuro, e a maggior ragione dopo il ritrovamento di questa prima versione, si scatenerà un’accesa disputa fra gli stessi esegeti della Bibbia, e fra i critici letterari che continuano a sostenere che Freud sia stato uno dei più grandi scrittori e “creatori di miti” del Novecento. Non è un caso che Harold Bloom abbia deciso di proporre proprio un estratto del saggio di Freud su Mosè all’inizio del suo libro dedicato all’Esodo, Exodus, edito da Chelsea House, già nel 1987. Bloom era perfettamente consapevole del fatto che quella di Freud era una mossa disperata, un estremo tentativo di salvare l’ebraismo, pure al prezzo di una terribile rinuncia, come altre volte in passato. La rinuncia a considerare Mosè un ebreo, la rinuncia all’elezione del popolo ebraico, la rinuncia a considerare la religione ebraica come la prima religione monoteistica.
Ma perché era necessario che Mosè diventasse un egizio? Forse per alleggerire la colpevolizzazione dei cristiani che li accusavano di deicidio, di aver contribuito a uccidere il Figlio di Dio che gravava da secoli sulle spalle degli ebrei. Eppure, allo stesso tempo, il saggio fornisce un’interpretazione psicanalitica di come sia nato il senso di colpa ebraico (per aver ucciso Mosè) e successivamente quello cristiano (derivante dal peccato originale). A un certo punto dell’Esodo gli israeliti uccisero il Mosè egizio che aveva loro donato la fede monoteistica. Questo omicidio sarebbe poi stato rimosso, per ovvie ragioni, dato che era difficile spiegare perché gli israeliti avessero eliminato colui che li aveva liberati dalla schiavitù e li aveva uniti sotto una nuova religione. Successivamente Freud, riprendendo l’ipotesi dello studioso Ernst Sellin, che immaginava l’uccisione del creatore di Israele da parte del suo popolo, ipotizza l’esistenza di un secondo Mosè, un sacerdote madianita. Il secondo Mosè sarebbe stato colui che avrebbe operato la fusione tra il culto monoteistico egizio e il culto di Yahweh, che era il Dio dei madianiti, fino ad allora sconosciuto al popolo di Israele. A questa ipotesi Freud aggiunge la teoria di William Robertson Smith sulla cena totemica, nel corso della quale i membri dell’orda primordiale, dopo aver ucciso il capo dell’orda, se ne cibano in un pasto rituale (cannibalismo rituale). Dunque gli Israeliti riscattano, uccidendo il loro profeta, il peccato originale preistorico che Freud aveva già individuato in Totem e Tabù (1913). L’Ultima Cena, insomma, come una cerimonia di cannibalismo rituale, nella quale il leader politico e religioso viene ucciso e dato in pasto ai suoi discepoli per riscattare i peccati del suo popolo. Un cold case di 3.500 anni fa…
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Come abbiamo visto, Freud infligge una “ferita narcisistica” anche al cristianesimo, con un’ipotesi che attenua di molto l’originalità della crocefissione e della redenzione dai peccati tramite l’uccisione di Cristo, dato che un evento simile si è già verificato secoli prima quando gli israeliti hanno ucciso il loro profeta Mosè. Tra l’altro, Freud sottolinea il fatto che la redenzione per mezzo del sacrificio di Gesù Cristo ha solo contribuito ad aumentare l’odio nei confronti degli ebrei, che da allora in poi vennero accusati di aver ucciso il Figlio di Dio, e che gli ebrei non hanno voluto approfittare di questo secondo privilegio, di questa “seconda elezione” (di essere stati scelti per una seconda volta), perché non hanno riconosciuto il Salvatore.
Freud ammette di aver preso in prestito da Charles Darwin l’ipotesi che in origine gli umani vivessero in orde, ciascuno sotto la tirannia di un maschio più anziano che si appropriava di tutte le femmine e castigava o eliminava i giovani, compresi i propri figli. Dagli studi di James Jasper Atkinson inoltre Freud avrebbe preso l’idea che questo sistema patriarcale cessò quando finalmente i figli si ribellarono e si coalizzarono contro il padre, lo uccisero e poi lo consumarono insieme, dando origine al cosiddetto clan dei fratelli totemistici. Con l’uccisione del padre dell’orda iniziarono l’ordine sociale, le leggi morali e la religione. E arriviamo infine alla cena totemica di William Robertson Smith, cioè all’Ultima Cena, in cui le parole del Cristo (“bevete il mio sangue, mangiate la mia carne”) vanno interpretate in senso letterale. Un crimine che doveva essere espiato con una morte sacrificale – afferma il detective Freud ormai giunto alla conclusione delle sue indagini – poteva essere solo un omicidio, l’omicidio del Padre dell’orda e poi del primo Mosè. Il delitto innominabile fu sostituito dall’assunzione di un peccato originale. Il peccato originale e la sua redenzione attraverso la morte sacrificale divennero i capisaldi della nuova religione fondata da Saul, alias Paolo di Tarso, un altro ebreo. Nacque così il Cristianesimo, la Religione del Figlio.
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In una delle parti più oscure e contraddittorie del racconto biblico su Mosè, si narra che una volta Dio andò in collera contro di lui e volle ucciderlo perché aveva trascurato il comandamento della circoncisione. Sua moglie Zippora lo salvò agendo tempestivamente, circoncidendo il loro figlio e placando in questo modo l’ira di Yahweh. In un’altra versione (riportata dallo studioso Hugo Gressmann), Zippora circoncide lo stesso Mosè e getta il suo prepuzio insanguinato ai piedi di Yahweh.
Siamo in Esodo, 4, 24-26. La scena si svolge nei pressi di Kadesh-Madian, dove Mosè si è rifugiato dopo la sua fuga dall’Egitto. Durante la notte, Yahweh minaccia Mosè e vuole ucciderlo (forse perché ha omesso la circoncisione), e la madianita Zippora salva la vita a Mosè eseguendo, con una selce appuntita, la circoncisione sul loro figlio, o addirittura su di lui, sullo stesso Mosè.
“Mentre era in viaggio, nel luogo dove pernottava, il Signore lo affrontò e cercò di farlo morire. Allora Zippora prese una selce tagliente, recise il prepuzio (al figlio) e con quello gli toccò i piedi e disse: ‘Tu sei per me uno sposo di sangue’. Allora il Signore si ritirò da lui. Ella aveva detto ‘sposo di sangue’ a motivo della circoncisione”. Quasi tutti i commentatori concordano sul fatto che “i piedi” siano un eufemismo per il sesso, ci ricorda Gindele.
A questo punto Freud afferma di fare affidamento sulla “critica biblica moderna”, la quale sostiene che l’oggetto dell’operazione eseguita da Zippora sarebbe suo marito. In realtà questa spiegazione tardiva nasce dalla disperata necessità di negare l’origine egizia della circoncisione, di appropriarsene ristabilendo l’originalità della circoncisione ebraica con una scena oltremodo scandalosa.
A questo punto il lettore comincia a porsi una serie di domande.
Prima domanda: perché Yahweh si reca di notte da Mosè – mentre giace con la sua sposa madianita – e lo vuole uccidere? Forse perché vuole esercitare una sorta di ius primae noctis nei confronti di Zippora?
Seconda domanda: di quali piedi stiamo parlando? Dei piedi di Mosè oppure dei piedi dello stesso Yahweh?
Chiunque legga un passo del genere, si chiede come abbia potuto una delle tre grandi religioni monoteiste del mondo semplicemente tollerare di mantenere una scena così perturbante nel suo testo canonico. Ovviamente se si tratta dei piedi di Mosè è un conto, ma se si tratta dei piedi di Yahweh, ci troviamo di fronte a una scena la cui stranezza è tale che nessuna tradizione normativa potrà mai riuscire ad “addomesticare”. Inoltre, dato che lo stesso Freud ha posto in evidenza la connessione tra la circoncisione e la castrazione operata dal Dio-Padre nei confronti del Figlio (“La circoncisione è il sostituto simbolico dell’evirazione, che un tempo il padre primigenio nella pienezza del suo potere assoluto aveva inflitto ai figli.” p. 134), in questa scena altamente perturbante Zippora praticherebbe la circoncisione – o addirittura la castrazione – non su suo figlio, ma sullo stesso Mosè. Portando alle estreme conseguenze questa scena traumatica, si potrebbe arrivare a dire che Zippora non solo circoncide lo stesso Mosè, ma addirittura castra Mosè e depone i suoi genitali ai piedi di Yahweh, oppure addirittura – dato che molti studiosi concordano sul fatto che l’espressione “i piedi di Yahweh” sia da interpretare invece come “il sesso di Yaweh” – Zippora tocca con i genitali sanguinanti di Mosè il sesso di Yahweh, trasformando lo stesso Yahweh nel suo “sposo di sangue” (Blutbrautigam nel testo di Freud).
A questo punto la domanda scandalosa diventa: il sesso di chi?
A pensarci bene, si tratta di una scena veramente intollerabile per chiunque, per qualsiasi devoto, per qualsiasi credente e non solo, dunque altamente perturbante nel senso individuato da Freud nel suo celebre saggio Il perturbante (Das Unheimliche) del 1919, una scena che istituisce uno dei capisaldi della religione ebraica, e sulla quale Freud ritorna più volte. Ma è proprio questa grande capacità di umanizzare Yahweh, tipica dello scrittore J, invece di sforzarsi di avvicinare gli uomini a Dio (cosa che lo stesso Yahweh si rifiuta di fare, permettendo soltanto a Mosè, Aronne e ai Settanta Saggi di Israele di contemplarlo in quella che Harold Bloom ha definito la scena del “picnic sul Sinai”), alla sua essenza incommensurabile, che costituisce uno dei punti di forza delle fede ebraica, la fede dei nostri Padri.
Come ci ricorda giustamente Filoramo nella sua Prefazione, in un articolo intitolato appunto “Sposo di sangue” la studiosa Michela Bauks ha descritto un rito magico apotropaico destinato a “eliminare” una divinità demoniaca. Ovviamente la Bauks si rifiuta di identificare questa divinità con Yahweh, ma attribuisce il rito in questione a un’antica tradizione yahwista di Madian.
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Tra i rituali di iniziazione cui si deve sottoporre chi propone la propria candidatura a entrare in una gang latinoamericana, si può arrivare alla richiesta di uccidere un poliziotto, un membro di una banda nemica, o addirittura il proprio migliore amico. Se l’aspirante adepto riuscirà a compiere questo fatto di sangue, sacrificando il sentimento di amicizia alla fedeltà assoluta alla gang, consacrerà l’appartenenza alla gang con un vero e proprio patto di sangue. Così è accaduto anche in molte religioni, dove il legame di sangue rappresenta un collante formidabile tra gli adepti. Secondo Freud è accaduto anche nell’ebraismo – basti pensare all’episodio del sacrificio di Isacco (che in ultimo viene risparmiato dal Signore) e all’obbligo della circoncisione – dove, secondo la sua teoria, si è creato “un patto di sangue” tra Dio e il suo popolo, come poi è accaduto nel cristianesimo, con il sangue di Cristo che ha lavato i peccati del mondo. In seguito molte dottrine politiche hanno sviluppato ideologia e forme retoriche riguardanti i sacrifici di sangue di supposti martiri, soprattutto nell’ambito del nazionalismo, ma, come riportano gli storici Édouard Conte e Cornelia Essner nel saggio Antropologia del nazismo, la celebrazione dei “martiri di Monaco”, la conservazione come reliquie delle bandiere insanguinate dei primi militanti nazisti uccisi e la cerimonia annuale associata a inequivocabili inni, dimostra come il nazismo ambisse a diventare una vera e propria religione, consacrando il proprio patto di fedeltà assoluta con il sangue, o almeno a sfruttarne il linguaggio in contrapposizione e conflitto con le religioni canoniche. Vale la pena di ricordare come nel romanzo La notte della svastica, pubblicato da Katharine Burdekin nel 1937, quando il nazismo era al potere da soli quattro anni, si ipotizza che l’evoluzione logica di quel fanatismo avrebbe condotto, se avesse vinto, alla trasformazione dell’ideologia nazista in una religione.
Alla ricerca dell’originario ipotetico “patto di sangue” che lega gli ebrei al loro Dio, Freud si appella all’autorità del biblista cristiano Ernst Sellin: ciò che avrebbe dato vita all’ebraismo potrebbe essere stato “un ricordo del crimine originario, l’uccisione di Mosè, che avrebbe giocato un ruolo molto importante nel risveglio del senso di colpa ebraico proveniente dall’ambivalenza nei confronti del padre”.
Sellin a sua volta aveva ripreso l’idea di un omicidio originario di Mosè da Goethe, così come l’aveva esposta nel suo breve trattato Israele nel deserto (Israel in der Wuste) del 1797. In questo modo l’antisemita Sellin intende sfruttare, come il grande scrittore tedesco, la tradizione cristiana per accusare il popolo ebraico di aver ucciso i propri profeti. La cosa strana è che questa sua teoria tutt’altro che benevola nei confronti degli ebrei sia stata ripresa dal più grande intellettuale ebreo del Novecento…
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Alcuni studi e scoperte archeologiche sugli antichi re dell’età del ferro in Irlanda (ritrovamento dell’Uomo di Croghan, 2003) e nei paesi nordici mostrano come il popolo dei Celti, su indicazione dei loro sacerdoti, i druidi, non esitasse a uccidere il proprio re in un vero e proprio sacrificio rituale e a gettarlo in una palude, qualora fosse dimostrata la sua sterilità o qualora il re fallisse nella sua funzione essenziale di garantire la fecondità della terra. Si tratta di una conferma archeologica delle teorie sul mito di James Frazer e di Jessie Weston, ampiamente utilizzate da T. S. Eliot nella sua Waste Land. Dalla sterilità del Re Pescatore descritta nella Waste Land all’omicidio rituale del re non c’è che un passo… l’omicidio rituale del proprio capo politico o religioso rimane una costante della civiltà umana, in qualsiasi parte del mondo, dal supposto episodio dell’assassinio di Mosè fino ai leader politici odierni, che spesso fanno una brutta fine. Un filo rosso di sangue collega le paludi torbose d’Irlanda del IV Secolo a.C. alle paludi dell’Egitto dove fu tratto dalle acque un futuro profeta durante la XVIII Dinastia…
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Insomma, la materia trattata da Freud è ancora incandescente e di bruciante attualità, come dimostra il convegno Out of Egypt. Transdisciplinary Perspectives on Archaeology, Text and Memory, organizzato nel 2013 a San Diego, California, che ha visto per la prima volta riuniti insieme egittologi e biblisti, al fine di individuare i misteriosi intrecci tra la religione degli egizi e quella degli ebrei. Si tratta di un nuovo, promettente, campo di studi interdisciplinari, che gravita soprattutto attorno agli studiosi Richard Elliott Friedman e Thomas Levy, organizzatore della conferenza. Sicuramente il convegno di San Diego rappresenta un primo passo importante, che porterà gli esegeti del testo biblico ad approfondire anche le connessioni tra l’ebraismo e l’antica religione egizia, e lo studio dell’antica religione dei Madianiti, di cui si sa ancora poco. Si spera che al prossimo convegno sull’argomento vengano invitati anche degli psicanalisti, dato il contributo fondamentale che Sigmund Freud, ancora una volta, ha offerto allo sviluppo di questo nuovo campo di studi. Si tratta di uno sviluppo necessario, se vogliamo comprendere veramente quale complesso intreccio si è venuto a creare all’epoca dell’Esodo, tra la religione egizia, l’antico culto di Yahweh a Madian e la nascente religione ebraica. La psicanalisi può ancora dare un grosso contributo allo studio delle religioni. Anzi, una riflessione più approfondita sul Mosè di Freud e sul Romanzo Storico può aiutare la psicanalisi a comprendere meglio se stessa.
Note
1) A pag. 28 g del manoscritto originale del Romanzo Storico, ci troviamo improvvisamente di fronte a una svista di Freud, una parola “sbagliata”, un lapsus che probabilmente andrebbe analizzato in tutte le sue implicazioni. Freud utilizza infatti, invece di Aussetzungsage, “leggenda dell’abbandono” di Mosè, la parola Aussetzungsgasse, cioè “vicolo dell’abbandono”. Immaginiamo ciò che lo stesso Freud avrebbe potuto scrivere su questo particolare gioco di parole, da cui si potrebbe partire per ipotizzare un’identificazione totale di Freud con Mosè, tanto da arrivare a immaginare un Freud bambino abbandonato in un vicolo di Vienna, oppure la nascita di un nuovo Mosè salvato dalle acque del Danubio… Anche Freud, dunque, sostituisce se stesso, figlio tardivo dell’Ebraismo, al padre dell’Ebraismo, Mosè, rimettendo in scena l’Esodo quando fu costretto a lasciare Vienna in quel drammatico 1938 per non cadere prigioniero dei nazisti. Ancora una volta il Figlio si sostituisce al Padre…
2) A pagina 152 dell’edizione Bollati Boringhieri del Mosè di Freud (2013), dunque del testo ufficiale cui fanno riferimento tutti gli psicanalisti italiani, troviamo una considerazione importante di Freud, dalla ormai celebre Appendice ritrovata dallo studioso Pier Cesare Bori nel 1979. Questa considerazione di Freud a proposito del Romanzo Storico è stata tradotta nei seguenti termini: “Se tuttavia io, che non sono né ricercatore storico né artista, definisco uno dei miei lavori come “romanzo storico”, ciò significa che questo termine consente ancora un altro impiego. Sono stato educato all’osservazione accurata di un determinato ambito di fenomeni, e facilmente per me all’ elaborazione letteraria e all’invenzione si collega la macchina dell’errore.” In realtà Freud in questa frase parlava della macchia dell’errore (der Makel des Irrtums). Una “macchia” sulla più prestigiosa edizione italiana delle Opere di Freud da cancellare al più presto…
Sigmund Freud, L’uomo Mosè. Un romanzo storico, Castelvecchi, 2022; con testo tedesco a fronte, Prefazione di Giovanni Filoramo, Commento di Thomas Gindele, traduzione dal tedesco di Johanna Vennemann, traduzione dal francese di Chiara Calcagno, pp. 380, euro 25,00 stampa.