La fantascienza decolonizza l’Africa?

AAVV, Futuri uniti d'Africa. Fantascienza contemporanea africana, cura di Francesco Verso, Future Fiction, pp. 280, 17,00 stampa, euro 5,00 epub

Dopo la Cina, l’India, la fantascienza latinoamericana, continua con questa antologia il carotaggio delle letterature fantastiche e speculative di tutto il mondo intrapreso ormai da diversi anni da Future Fiction. Come osserva Nicoletta Vallorani nella prefazione a Futuri uniti d’Africa, nell’approcciare le visioni che provengono dal continente africano “Il plurale sarebbe d’obbligo: pochi luoghi come l’Africa nascono sotto il segno della molteplicità linguistica, religiosa, politica e culturale.” Tanto più se le nostre cognizioni in materia si fermano, come per la maggior parte di noi, quasi esclusivamente alla parabola di autrici SF afroamericane straordinarie come Nnedi Okorafor o Nora K. Jemisin.

Sono visioni linguisticamente sfavillanti, a volte stupefacenti, che spiazzano e mettono in scacco le nostre aspettative anche rispetto allo stereotipo dell’afro-futurismo, quelle che emergono da queste 23 short story di autrici e autori provenienti da Nigeria, Botswana, Sudafrica, Rwanda, Malawi, Kenya, Uganda, Zimbabwe, cioè in pratica dai quattro angoli dell’Africa sud-sahariana. Arrivano dalla leva professionale della scrittura, della fiction, della regia e della sceneggiatura, giovani talenti e non nerd o ingegneri con l’hobby della fantascienza, descrivono situazioni che non servono a trasmettere ottimismo tecnologico o entusiasmo transumanista. Semmai a rendere questi sentimenti più problematici. Attingono ai cliché fantascientifici degli ultimi decenni – A.I. diffuse, upload della mente, mondi sensoriali simulati – per circuitarli nel materiale narrativo e nelle figure della tradizione popolare, per poi virarli nella quotidianità sgargiante di un continente che negli ultimi secoli ha conosciuto il “futuro” per lo più come mezzo di dominazione a opera dei bianchi. È uno strano future folk, come una canzone cantata dal coro dei cyborg di un futuro perduto, la melodia che sale dalle pagine di questi racconti. Come in L’ultima narratrice, del nigeriano Dilman Dila, dove un artista di simulazioni VR iperrealiste deve muoversi tra fantasmi familiari e personaggi del suo best seller per uscire dall’incubo che è stata fino a quel momento la sua vita.

Futuri uniti d’Africa suggerisce che niente meglio della Science-fiction permetta, in questo momento, di catturare lo sguardo della decolonizzazione nel suo farsi movimento del presente e di proiettarlo in un futuro divergente perché diventi pura attualità. Certo, come osserva Wole Talabi nelle note introduttive del volume, possiamo credere che esista oggi una relazione positiva che, operando tra le pieghe meno visibili del capitale cognitivo, metta in correlazione la crescita del Pil di una nazione (o in questo caso di una futura Unione) con la popolarità della letteratura fantascientifica o la creatività dei suoi autori (come del resto tenderebbero a dimostrare oggi i casi opposti di Italia e Cina). Molto prima di quanto si immagini, vedremo forse questo “teorema” verificato anche per gli africani. Ma, va detto, in questo spicchio di immaginario africano, a differenza di quanto si tende a leggere, ad esempio, tra le righe di molta SF cinese, non c’è traccia di nazionalismo tecnologico, magari panafricano, nessuna spia ansiogena da “destino manifesto”, magari storicamente legittimata dal declino dell’Occidente: in un solo racconto compare un astronauta ed è solo per incontrarlo in una imbarazzata riunione di famiglia (tradire tua moglie con una escort androide e ritrovarsi un figlio è lo stesso che usare un dildo intelligente?).

In un futuro profondamente mutato dalla tecnologia e dalle violente trasformazioni climatiche, le disuguaglianze assumono forme nuove, più sottili e paradossali ma non per questo meno violente, e che non scompariranno per magia. La resistenza per quelli che ci provano non è mai facile né indolore, si può finire in un loop cercando di proteggere l’immagine mentale congelata della madre scienziata o perdere l’esoscheletro militare e il cliente nel tentativo fuori programma di fare l’eroe e di proteggere una comunità predestinata allo sterminio governativo. O giocare al terrorismo e hackerare il DNA per protestare contro le manipolazioni genetiche. D’altra parte anche adattarsi non è poi così semplice, come per la coppia di anziani condannata ad allevare come figlio un assassino industriale da mandare in guerra. E anche l’aldilà può essere un vero incubo pixellato se non hai i soldi per un decente piano di caricamento della mente. Tra le anse del cambiamento, gli esseri umani perdono in ogni caso il loro segnaposto al centro del mondo e, se vogliono salvarsi, devono rivedere le alleanze con le altre specie non umane, come nel racconto di Lauren Baukes, dove per mandare avanti un progetto ecosostenibile tra le rovine di un resort di lusso, ormai sommerso dall’innalzamento marino, la protagonista offre a turisti annoiati la possibilità di mescolare la propria coscienza con i sensi di una foca. O, più radicalmente come la protagonista di Sunset Blues di Wamini Kimemiah che, partita da un trip un po’ sperimentale, scopre la bellezza vegetale che la porta a scegliere alla fine una vita in simbiosi con il mondo delle piante.