In una gelida mattina del 30 novembre del 1899 un uomo elegantissimo e turbato sale le scale di uno stabile sopra il ristorante Voisin, vicino Place Vendôme, a Parigi, per venire introdotto in un modesto appartamento. Ammantato di veli neri, sul pavimento, è collocato un feretro scoperchiato intorno al quale si aggira una decina di persone: il rappresentante dell’Ambasciata italiana e vari sconosciuti. Prima che la bara venga chiusa l’uomo ha modo di avvicinarsi e guardare il volto cereo ma ancora bello della femme fatale sessantaduenne che vi giace: lo definirà più tardi augusto, eroico, asessuato. Il volto di una donna che avrebbe voluto un funerale da faraona: venire imbalsamata con i suoi cani, coperti di stoffa blu e viola, la collana di perle jeune fille, di nove fili, tre neri, tre rosa, tre bianchi – regalo dell’Imperatore – al collo, e indosso la chemise de nuit de Compiegne, ricordo della prima notte d’amore nell’imperiale alcova e che, per alcuni, avrebbe dovuto garrire come bandiera nazionale italiana al posto del tricolore. Nessuna delle sue volontà era stata esaudita, ma il visitatore resta ugualmente colpito, quasi sconvolto. Per i dodici anni seguenti raccoglierà con passione maniacale ogni reliquia, testimonianza, fotografia, oggetto legato a quella donna, che non ha mai incontrato in vita, e coronerà infine il suo culto con la pubblicazione di un libro su di lei: La divine comtesse. Quell’uomo era Robert de Montesquiou-Fézensac, discendente di D’Artagnan – non il personaggio dumasiano ma storico – già modello del Des Esseintes di À rebours di Huysmans, la bibbia del decandentismo, e di lì a poco del barone di Charlus della Recherche di Proust. L’altolocato, impeccabile dandy aveva appena riconosciuto il doppio femminile di sé stesso, e si sarebbe assunto il compito di trasferire la memoria di un’icona, anzi dell’icona, della generazione precedente nel nascente mito dell’estetismo decadente di fin de siècle.
Virginia Elisabetta Luisa Carlotta Antonietta Teresa Maria Oldoini, coniugata Verasis Asinari contessa di Castiglione, non era una donna amabile. Gli ultimi anni l’avevano vista reclusa e solitaria – avendo prima allontanato e infine seppellito genitori, marito e figlio – infestare come il fantasma di sé stessa pochi locali addobbati interamente in nero, ripieni di sue foto, gioielli e feticci delle passate glorie; tutti gli specchi velati – così almeno vuole la leggenda – per eludere “l’onta suprema della decadenza”, come di lei scrisse Guido Gozzano. Usciva di rado, ammantata di nero, il volto sempre nascosto, due cagnolini, grassissimi, al guinzaglio la precedevano; raro che qualcuno osasse rivolgerle la parola, ma ancora tutti la guardavano e si davano di gomito: “La Contessa!… La Contessa!”. Cenava spesso al Voisin, sempre sola, proprio sotto casa, e continuava a farsi fotografare dal fidato Pierson che aveva immortalato ventisei anni prima la sua splendente bellezza in centinaia di fotografie da lei personalmente ritoccate: fosse la Dama di cuori, fosse la Regina d’Etruria, fosse lo sguardo irresistibile baricentro sbirciante malizioso oltre una cornice che nascondeva il resto del volto, fosse la figura slanciata in burnus nero che Visconti avrebbe omaggiato in Senso vestendo Alida Valli a sua immagine. Perfino il dettaglio delle sue gambe nude ritratte fin sopra alla coscia mentre sollevava la veste – l’equivalente per l’epoca quasi di una foto pornografica – sarebbe stato replicato davanti all’obbiettivo mostrando i piedi gonfi di una vecchia su un cuscino scuro come quello di una bara: non rappresentazione di un passato mitico ma anticipazione morbosa del futuro, commentò qualcuno.
Le sue lunghissime lettere – in un bizzarro ma efficace, anche se talvolta un po’ sgrammaticato, miscuglio di toscano e francese – a conoscenti, ammiratori, ex amanti, unico contatto con il mondo esterno, lamentavano acciacchi e depressione, deprecavano l’ingratitudine di chi l’abbandonava “sola, malata, miserabile” e rivendicavano il suo ruolo chiave, la sua abilità diplomatica, nell’aver fatto l’Italia. Ipocondria, tendenze paranoiche e mania di grandezza patologica, forse. Ma qualcosa di vero doveva pur esserci se, non ancora calato il suo feretro nella tomba al Père-Lachaise, una delegazione dell’Ambasciata italiana si era precipitata nelle sue stanze di Parigi e, in contemporanea nella magione familiare di La Spezia, aprendo armadi e cassetti per sequestrare e distruggere pile di documenti, lettere, incartamenti che la ex maliarda fiorentina aveva gelosamente conservato. Amante del “Re galantuomo” Vittorio Emanuele II, dell’Imperatore Napoleone III, di decine e forse centinaia di altri personaggi importanti, in relazioni strette con i Rothschild, amichevoli con Bismark, la bella e dissoluta cugina del Conte di Cavour, intelligente, spregiudicata, capricciosa e spesso spietata – grafomane che conservava un diario intimo in cui aveva annotato in codice gli incontri con tutti i suoi innumerevoli amanti segnando con una sigla specifica il grado di intimità raggiunto e le prestazioni erotiche fornite, dal semplice bacio al rapporto completo – aveva fin troppi scandalosi segreti da rivelare.
La sua carriera di agente segreto, spia e cocotte d’alto bordo era iniziata prestissimo, a diciotto anni, avendo la nobildonna fiorentina di straordinaria bellezza – “una statua fatta di carne”, come la definì la principessa di Metternich – manifestato fin dalla più tenera età adeguate attitudini all’avventura galante. Sposata senza amore l’anno prima al conte di Costigliole d’Asti e Castiglione Tinella – dal quale ebbe un figlio, Giorgio Verasis Asinari – uomo mite che sopportò stoicamente corna pluri-ramificate e sempre cercò – succube anch’egli come tutti i maschi di tanto sublime venustà – una riconciliazione pervicacemente negata dalla moglie fedifraga e ribelle, passò dal bel mondo fiorentino nel quale era cresciuta e dal feudo paterno intorno a La Spezia, alla corte sabauda dove il cugino Camillo Benso, conte di Cavour, intuitone le capacità – ma, a quanto risulta, immune al suo fascino – la reclutò fin dal 1855 inviandola a Parigi tra le braccia dell’Imperatore Napoleone III per fomentare l’alleanza franco-piemontese. Missione che la giovane svolse con efficace solerzia non disdegnando nel frattempo anche gli occasionali amplessi – a suo giudizio più soddisfacenti e virili – di Vittorio Emanuele II. La bella Nicchia, come si faceva chiamare nell’intimità, fece strage di cuori alle Tuileries ostentando spudoratamente – fra l’invidia e la riprovazione delle dame, a cominciare com’è ovvio dall’Imperatrice Eugenia – il suo ruolo di amante ufficiale dell’Imperatore. Un attentato sventato a Luigi Napoleone nel 1857, proprio negli appartamenti della contessa dove si era recato per un appuntamento galante, mise definitivamente in crisi il rapporto tra i due e minò drasticamente il successo mondano dell’irresistibile italiana: l’ipotesi più probabile è che l’agguato fittizio – che tuttavia costò la vita a un poliziotto corso – fosse stato architettato dall’Imperatrice stessa per screditare la sempre più pericolosa rivale che ambiva palesemente a sostituirla. “Quella spagnola me la pagherà cara!” risulta, dal verbale dell’interrogatorio al commissariato, aver gridato la furibonda contessa del tutto estranea ai fatti. Ma nonostante lo sgradevole incidente la guerra di Crimea vedeva ormai solidificati i rapporti fra la Francia imperiale e il Regno di Sardegna e l’unica a subire conseguenze negative, l’allontanamento da corte e il temporaneo ostracismo, fu solo la povera Virginia. Ben più gravi ripercussioni avrebbe avuto l’attentato di Felice Orsini nel 1858, anch’esso fallito ma con grande spargimento di sangue, senza tuttavia intaccare l’alleanza franco-italiana: Plombières si profilava all’orizzonte.
Tramontate le ambizioni imperiali, Virginia negli anni seguenti proseguì la sua carriera di libertina e avventuriera: sedusse banchieri consumando capitali mai restituiti; speculò, grazie alle solide aderenze con i Rothschild, sulle informazioni su prestiti e debiti di guerra lucrando mentre gli italiani morivano a Custoza; simpatizzò con la fazione orleanista ma intercedette in favore di Thiers presso l’amico Bismarck per un’equa conclusione della guerra franco-prussiana e l’instaurazione di un governo repubblicano a Parigi; trascurò crudelmente il figlio Giorgio che, persa la protezione del padre, morto precocemente, e della nonna, dovette lottare duramente per emanciparsi dalla dispotica e talvolta sadica tutela della madre, che gli negava la sua parte di eredità paterna: riuscirà faticosamente a guadagnarsi la libertà per morire di vaiolo a soli ventiquattro anni. Intanto Nicchia passava dalle braccia del quasi patrigno Giuseppe Poniatowski, che chiamava “il Vecio”, a quelle di Costantino Nigra, da quelle di Louis-Charles Estancelin a quelle di Paul de Cassagnac, in intrichi e intrighi plurimi, incrociati e contemporanei più consoni a una frigida e interessata manipolatrice che a una passionale praticante della poliandria. Infine, riottosa, Virginia dovette rassegnarsi a cedere a un solitario crepuscolo senza riuscire a coronare l’apoteosi finale della sua vanità: la progettata mostra di tutte le centinaia di fotografie che la immortalavano all’Esposizione Mondiale del 1900, sotto il titolo di “La donna più bella del secolo”.
Tutto questo e molto altro il lettore troverà nell’ultimo libro di Benedetta Craveri, uscito in contemporanea in edizione italiana per Adelphi e francese per Flammarion. Negli stessi giorni in cui è uscito La contessa, la casa editrice del compianto Calasso ristampa anche un altro classico best seller di Craveri, l’altrettanto avvincente Gli ultimi libertini, appena pubblicato in edizione economica. Il sapiente equilibrio fra documentazione storica accurata ed elegante scrittura, approfondimento saggistico e taglio romanzesco, fanno dei libri di Craveri un raffinato strumento di conoscenza ma anche di intrattenimento.
Per chi volesse poi proseguire il suo percorso di ricerca lungo i tortuosi itinerari attinenti a Virginia Verasis, passando dalla critica sobrietà di Craveri all’entusiastica idealizzazione di un contemporaneo, Passigli ha da poco tradotto il classico di Robert de Montesquiou: La Divina contessa, Studio sulla Signora di Castiglione, con prefazione di Gabriele D’Annunzio, libro uscito in soli 200 esemplari nel 1913. È il segno indelebile di una fascinazione imperitura per un personaggio, incarnazione di un sacro e sacrilego femminino, che procede intatto oltre il tempo traslando dalla storia al mito.