Alzi la mano chi si ricorda il “caso Montesi”, risalente alla primavera 1953. E non tanto chi si ricorda della morte di Wilma Montesi così com’è trasfigurata nel finale della Dolce vita di Fellini, con lo spiaggiamento del cadavere di manta, quanto chi rammenta le diverse implicazioni culturali, sociali e politiche di quella contingenza. In breve, si era alle porte del cosiddetto boom economico e, in campo politico, le linee di continuità con il ventennio fascista si mescolavano allo scontro, interno alla DC, tra le fazioni di Scelba e Fanfani – nomi, questi ultimi, che in realtà oggi ricorrono con una qualche frequenza, poiché offrono interessanti spunti di paragone per la miscela di autoritarismo e conservatorismo che caratterizza il panorama politico attuale…
Per chi non avesse alzato la mano, in ogni caso, Corpi di passaggio di Andrea Cedrola offre più di un motivo per tornare a interrogare quel particolare momento della storia del Paese. Naturalmente, poi, il romanzo di Cedrola – il secondo della serie dedicata al personaggio di Gerardo Conforti, dopo La speranza è un vizio privato (Fandango, 2016), basato sul delitto Rina Fort del 1946 – non si limita a svolgere questa funzione: la narrazione, affidata a molteplici prospettive e livelli temporali, ha una qualità dichiaratamente caleidoscopica; al tempo stesso, però, il ritmo resta incalzante, come si conviene ai generi letterari con i quali Corpi di passaggio si trova spesso a flirtare (pur non aderendovi in toto).
Come ha rilevato Mimmo Cangiano nella recensione pubblicata sul Il manifesto il 19 luglio 2019, infatti, la serie di romanzi di Andrea Cedrola sfugge alla polarità tra la narrazione localista e di provincia e quella metropolitana e underground che si può rintracciare nella storia recente del giallo e noir italiano. La posta in gioco è più ambiziosa – alzando l’asticella anche rispetto al libro precedente di Cedrola – e non riguarda soltanto la riscrittura, in un romanzo più o meno “di genere”, della storia nazionale del secondo Novecento.
Si tratta di “far parlare” quella storia attraverso la reinvenzione dei suoi personaggi e delle loro vicende: esigenza primaria della scrittura romanzesca, si traduce qui in una torsione quasi espressionistica della lingua, a sancire, più che a contraddire, la ricerca della verosimiglianza e il piacere dell’affabulazione. Si pensi, in primo luogo, agli inserti in romanesco o cilentano: non si tratta soltanto di coloriture dialettali; il cilentano, per esempio, contribuisce a consolidare la figura di Gerardo Conforti, conferendogli qualità di umanità (risolvendo così la frequente oscillazione di un anti-eroe che, però, ha tutte le carte in regola per entrare nelle grazie del lettore) e soprattutto un’affascinante capacità narrativa, al punto di rimodellare di continuo la narrazione stessa. Ancor più rilevante è però l’abilità dell’autore nell’attraversare diversi registri di scrittura, in un libro che si propone, pur nell’invenzione, come grande archivio documentario.
E il documento che resta in mano, in mancanza di una verità univoca sul caso Astarelli/Montesi, non è soltanto quello di una dolce vita capitolina dal retrogusto amarissimo, ma anche di una società profondamente attraversata, in tutte le sue classi, da linee di faglia che il corso della storia non sanerà, ma intensificherà sempre di più.