Auður Ava Ólafsdóttir, Hotel Silence, tr. Stefano Rosatti, Einaudi, pp. 200, €18,50 stampa, €9,99 eBook
recensisce ROBERTO DEROBERTIS
Jónas Ebeneser Snæland è un piccolo imprenditore islandese, ha quarantanove anni, una figlia ormai adulta (Guðrún Vatnalilja), una madre smarrita nei meandri della demenza senile (Guðrún) e una ex moglie (Guðrún anche lei) che gli ha appena rivelato un segreto sconvolgente. A partire aalle relazioni con le tre Guðrún, dalla sistemazione dei cartoni di roba vecchia nel suo scantinato e dalla rilettura dei suoi diari giovanili, Jónas tenta una profonda riflessione esistenziale – mai pretenziosa – sulla sua vita, nel momento in cui ha deciso di suicidarsi.
La prima parte del romanzo, intitolata «Carne» e dedicata alla riesumazione del passato e che culmina con la decisione del protagonista di farla finita, si svolge in Islanda. La seconda, intitolata «Cicatrici», si svolge in un non ben specificato Paese dove una devastante guerra civile ha da poco lasciato posto ad una fragile tregua: potrebbe essere un luogo qualunque della ex Jugoslavia degli anni Novanta o la Siria di oggi. È qui che Jónas progetta di suicidarsi.
La narrazione, dunque, si muove geograficamente ed anche emotivamente: nella prima parte si stagliano davanti al lettore ghiacciai e crateri islandesi quasi magici fatti dell’«incommensurabile bellezza delle cime, i multipli strati del paesaggio, montagne dietro altre montagne, sfumature di blu dietro altre sfumature di blu», che il protagonista finisce per trovare ormai noiosi. Nella seconda parte, invece, la «devastazione è ovunque»: «qui le case crollano sotto le bombe, da noi si schiantano le rocce». Ecco, il racconto ci conduce attraverso diverse intensità di «crolli» e l’Hotel Silence del titolo, albergo di recente e faticosamente rimesso in piedi da una coppia di fratelli, diventa il «laboratorio» dove Jónas metterà alla prova la reale consistenza della propria condizione umana e delle sue sofferenze. Nei dialoghi con i tanti personaggi che incontra, si srotolano implacabili – ma senza sottolineature drammatiche – gli orrori della guerra: devastazioni, mutilazioni fisiche e psicologiche e tutti gli inconvenienti di una vita quotidiana tra le macerie.
Divertente e insieme serissimo un passaggio della prima parte quando Jónas recupera dal suo diario il ricordo di un rapporto sessuale all’aria aperta con la sua futura moglie: tornando a casa in bici, racconta di aver visto – dal vivo e a colori, in contrasto con le immagini televisive che saranno trasmesse in seguito – Reagan e Gorbaciov incappottati durante il celebre incontro del «disgelo’ della Guerra fredda a Reykjavik, nel 1986.
Con leggerezza di scrittura e profondità di intenti, scandagliando affetti attraverso corpi e cicatrici, Ólafsdóttir ci porta per mano, con gli occhi di personaggi teneri e bizzarri, in un mondo in frantumi, nel quale l’unica possibile ricostruzione – o riparazione, perché Jónas è un capace tuttofare, unica qualità che gli riconoscono le sue donne e che nella storia assume una valenza via via maggiore – passa attraverso la memoria e la manutenzione delle relazioni.
Questo romanzo sonda le difficoltà di tenere in piedi vite fragili: sia nei contesti ovattati del benessere occidentale sia in quelli di guerre devastanti che l’Occidente relega e delega a media rassicuranti (tv o social network che siano) e la cui reale e consistente materialità è semplicemente assente. E per questo stesso motivo, come un apologo, il romanzo invita a relativizzare il dolore: a guardare con attenzione etica alle storie degli altri, ad uscire dalle scatole di cartone, dove con serenità custodiamo tracce del (nostro) passato – talvolta toccante e lacerante – destinate a restare disponibili al reperimento e alla riflessione retrospettiva, al riparo dal lontano annichilimento altrui. Che invece esiste; e restiamo umani proprio a partire dal nostro riflesso nello sguardo annichilito dell’altro, riconoscendoci come sopravvissuti.