Il fatto che una nazione delle dimensioni del Portogallo abbia dato alla letteratura contemporanea due scrittori del calibro di José Saramago e António Lobo Antunes, divisi da solo vent’anni di età, dovrebbe forse stimolare qualche riflessione più approfondita. Saramago ha vinto il Nobel per la letteratura, premio per il quale anche Lóbo Antunes è stato proposto — e che personalmente mi auguro vinca prima possibile; ma non è questo a rendere necessario una comparazione, bensì la novità dirompente dietro l’originalità del loro stile. Ognuno dei due a modo suo, è chiaro, ma ciascuno con una Voce inconfondibile.
Sono conosciute le caratteristiche dello stile di Saramago: la lunghezza inusuale dei periodi, l’uso della punteggiatura fuori dalla norma, senza esclamativi e interrogativi, con pochi punto-a-capo, la mancanza di segni per indicare il discorso diretto, le battute di diversi personaggi poste di seguito, anche nel medesimo periodo.
Anche Lobo Antunes costruisce periodi complessi, frantumati, cede alla tentazione della divagazione, opera un montaggio di immagini e sensazioni destinato a riprodurre il ritmo del pensiero, rifugge i dialoghi diretti come se fossero malattie contagiose. In più, in Lo splendore del Portogallo, il ritmo è dettato da un continuo ritorno a una frase di discorso diretto pronunciata a voce alta; a partire da questa si sviluppa nella mente del personaggio punto-di-vista, una successione di immagini che provocano l’alternanza di ricordi e eventi nel presente della narrazione, spesso all’interno dello stesso periodo, con un meccanismo narrativo di grande efficacia.
Come tutta la prima produzione di Lóbo Antunes, anche questo romanzo è costruito intorno al grande evento formativo nella vita dell’autore: la partecipazione come tenente medico, in mansioni di psichiatra e anche di chirurgo, alla guerra d’indipendenza in Angola, tra il 1970 e il 1973, quando il Portogallo perde in un’ingloriosa avventura della dittatura, il suo status di potenza coloniale mantenuto per secoli.
La decolonizzazione e la conseguente decadenza economica, con la rivoluzione dei garofani che rovescia l’Estado Novo di Oliveira Salazar terminando cinquant’anni di dittatura fascista, sono il nucleo centrale della poetica di Lobo Antunes, il motore di tutti i primi romanzi — anche di quel In culo al mondo (Os cus de Judas, 1979) che è il secondo titolo pubblicato, fortemente autobiografico, quello che gli dà subito visibilità anche all’estero.
“perché noi l’Angola non la comprendiamo pur essendo nati in Angola, non comprendiamo la terra, la varietà di odori, l’alternanza di aridità e pioggia, di sottomissione e furia, di indolenza e violenza, l’Angola, questo presente senza passato e senza futuro in cui il passato e il futuro rientrano ormai senza alcun nesso con le ore, i giorni, gli anni, la misura aleatoria dei calendari, quando l’unico calendario sono l’arrivo e la partenza delle oche selvatiche e la permanenza delle aquile crocifisse nelle nuvole”
La trama è costruita su due piani temporali: una serie di capitoli racconta la lunga sera del 24 dicembre 1995, vigilia di natale, quando Carlos attende nella sua casa in un quartiere popolare di Lisbona i fratelli Riu e Clarisse, invitati a festeggiare insieme dopo anni di contatti interrotti; una seconda serie di capitoli copre un lungo lasso temporale tra il 1980 e il presente della narrazione, da diversi punti di vista e a capitoli alternati: i fratelli di Carlos, e soprattutto la loro madre Isilda, che ha scelto di rimanere in Angola dopo l’evacuazione del paese e la nascita della Repubblica popolare marxista-leninista, immediatamente trascinata in una rovinosa guerra civile dall’Unita, il fronte di opposizione armata sostenuto dagli Usa.
Il dramma privato della famiglia si interseca in maniera inestricabile con il dramma infinito di una nazione che affonda nella palude della guerra civile. Neppure il ritorno in patria è una soluzione, infatti Isilda lo rifiuta, imbarcando i tre figli su una delle ultime navi che evacuano i coloni cacciati via; e in fondo ha ragione, perché:
“In Portogallo non siamo più che tollerati, guardati come noi guardavamo quelli che lavoravano per noi e dunque, in un certo senso, eravamo i negri degli altri proprio come i negri possedevano i loro negri e questi i propri negri a gradini successivi che scendevano giù sino al fondo della malattia e della miseria, storpi, lebbrosi, schiavi di schiavi, cani”
La decadenza della famiglia è la decadenza del Portogallo, il miserabile naufragio nel sangue di una visione gerarchica delle civiltà, la cristianità su tutte le altre religioni, la razza bianca in cima a tutte le altre, la potenza tecnica sopra la tradizione. L’imperialismo corrompe il dominatore ancora più del dominato, la sua civiltà comincia a putrefarsi sotto l’effetto di un veleno che nessuno vede.
“Mio padre soleva spiegare che ciò che eravamo venuti a cercare in Africa non era denaro né potere ma negri senza denaro e senza nessun potere che ci dessero l’illusione del denaro e del potere che di fatto anche se lo avessimo avuto non avevamo non essendo più che tollerati, accettati con disprezzo in Portogallo, guardati come noi guardavamo i bailundo, quei braccianti negri che lavoravano per noi e quindi in un certo senso eravamo i negri degli altri proprio come i negri possedevano i loro negri e questi ultimi i loro negri, a gradini successivi che arrivavano giù sino al fondo della miseria, storpi, lebbrosi, schiavi di schiavi, cani, mio padre soleva spiegare che ciò che eravamo venuti a cercare in Africa era trasformare la vendetta di comandare in ciò che fingevamo fosse la dignità di comandare, vivendo in case che imitavano le case europee e che qualsiasi europeo avrebbe disprezzato considerandole come noi consideravamo le catapecchie che ci circondavano, con la stessa ripulsa e lo stesso disprezzo, comprate o fatte costruire con denaro che valeva meno del loro denaro, un denaro che serviva solo alla crudeltà del modo in cui veniva guadagnato.”
Lo stile del romanzo è costruito per accostamento di immagini e iterazione di eventi. Spesso il pensiero di un personaggio scatena per giustapposizione un ricordo che appartiene a un altro personaggio, che può completare il primo, oppure può semplicemente mostrare l’impossibilità di un reale cambiamento perché ogni pedina di questa tragedia è incastrata in un ruolo immutabile. L’iterazione delle situazioni invece avviene su due livelli: a capitoli alterni, quando si torna sempre al presente della narrazione, con Carlos immobile insieme alla moglie nel triste appartamento di Lisbona dove la cena di natale si raffredda a mano a mano che la notte della vigilia avanza, e all’interno dello stesso capitolo, quando l’autore utilizza una frase in funzione di diapason linguistico, per irradiare schegge di ricordi sotto forma di immagini.
Lo splendore del Portogallo è una lettura non esattamente facile, ma Lobo Antunes è uno di quegli autori in grado di parlare direttamente a un nucleo profondo di emozione che è dentro ogni lettore.