In Cara pace, romanzo candidato al Premio Strega 2021, Lisa Ginzburg disseziona i rapporti familiari, l’infanzia e la loro inevitabile influenza sul destino di ognuno con una forza gentile che incanta, un’eleganza tenace che persiste anche nei momenti narrativi più cupi. Attraverso una voce soave e profonda, un ritmo cadenzato caratterizzato da ritorni stilistici che al contempo rassicurano e spiazzano, l’opera sembra costruita su cerchi concentrici il cui nucleo poroso si sposti di continuo pur rimanendo il medesimo – un nucleo che si scoprirà vuoto, ma da cui ha origine un concatenarsi necessario di azioni e di parole, un flusso che scorre e poi ritorna, uguale a sé stesso eppure cambiato, cresciuto. Così come cambiano e crescono, pur rimanendo indissolubilmente legate, Maddalena e Nina, le protagoniste del romanzo.
Maddalena vive a Parigi con il marito Pierre, diplomatico internazionale, e i due figli adolescenti. Tra le pieghe di una vita serena, ben organizzata e soddisfacente, trova sempre il modo d’infilarsi Nina, la sorella newyorkese fascinosa, irruente ed egocentrica. Maddi, io narrante del romanzo, appare insofferente alle chiamate inopportune della sorella e alla sua costante richiesta di attenzioni, eppure dentro di sé sa bene di non poterne fare a meno. Nina è il suo doppio, la sua metà, ciò che le permette di costruire, mentre Nina distrugge; ciò che le consente di mantenere il controllo, mentre Nina vive nel caos. Un equilibrio instabile, sbilanciato, e tuttavia tanto radicato da far sentire entrambe al sicuro, protette perché sanno di poter prevedere cosa accadrà: in una determinata circostanza, Nina agirà in un modo, Maddi in un altro – al contrario, probabilmente.
È così da quando, tanto tempo prima, la mamma di Maddalena e Nina è andata via, destinandole a una vita da “orfane senza esserlo”, con un padre sempre fuori per lavoro, e una madre che, dopo essere rientrata in Italia, ha diritto a vederle due domeniche al mese per qualche ora. Una volta trasferitesi da Genzano a Roma, a occuparsi della loro quotidianità viene assunta Mylène, giovane donna francese pratica e disciplinata, che grazie alla sua presenza discreta ma costante riesce a far trovare alle ragazze una parvenza di ordine, un’idea di stabilità dopo la tempesta.
Tuttavia la vita delle sorelle, che tra alti e bassi sembra in superficie scorrere senza troppi intoppi, continua interiormente a scavare nel buco nero creato dalla grande mancanza lasciata dalla madre. Una madre nonostante tutto amatissima, ammirata per la sua bellezza e il suo fascino, stimata per il suo carattere forte, lodata per il suo impegno nel lavoro. Ma tutto l’amore del mondo non potrà colmare il vuoto lasciato dall’assenza di lei, un vuoto che, anzi, proprio grazie all’amore incondizionato delle figlie sembra ingigantirsi, farsi presenza: la presenza di un’assenza fortissima, un vuoto talmente profondo da apparire tangibile, corporeo, qualcosa con cui dovranno fare i conti fin da piccolissime, e che influirà per sempre sulle loro scelte, sulle loro personalità.
Maddi e Nina, Nina e Maddi: le due facce di un’unica medaglia, un’addizione di individui il cui risultato non può essere che due. Loro due, unite – come solo il dolore sa unire – nell’affrontare quel vuoto presente, nel rapportarsi a esso in ogni momento della vita. Loro due, due ma indivisibili: una dualità che non ha mai dimenticato l’unità da cui proviene e dove la separazione, lo staccarsi per farsi sé, individuo unico, separato, diviene necessariamente traumatico e doloroso. Loro due, così unite e così diverse: Nina, la minore, bella, enigmatica, veloce nella corsa come nella vita, fulminea, travolgente; Maddi, sorella maggiore riflessiva e ponderata, giudiziosa. A Roma, Maddi adotta una tartaruga, e il suo carapace diventa per lei il simbolo della protezione di cui è in cerca: tanto Nina è bramosa di avventure, di novità, tanto Maddi vive in difesa, sogna un riparo dagli imprevisti, un porto sicuro dove approdare.
Come gli Agapornis, i pappagallini inseparabili, Maddi e Nina costruiscono all’interno della loro gabbia di solitudine un rapporto che tiene in vita entrambe, in cui ognuna svolge la sua funzione – Maddi la protezione, la sicurezza, Nina l’irruenza, la passione. Il filo che le lega rischia però, inconsapevolmente, di ingrossarsi fino a trasformarsi in catena: chi è – chi sarebbe stata, chi avrebbe potuto essere – Maddi senza Nina?
Per staccarsi dal suo carapace che è insieme scudo e casa, protezione e oppressione, Maddi ha un’unica scelta: non dire a Nina del suo viaggio a Roma, che è un andare ma anche un tornare – alle radici, alle origini della vita e del vuoto – e affrontare la separazione come una liberazione. Liberazione dal carapace, liberazione dai rigidi ruoli imposti dal rapporto con la sorella e, finalmente, liberazione di sé, della propria natura – anche contraddittoria. Ecco allora che dalla matassa intricata dei rapporti familiari potrà timidamente fuoriuscire il singolo filo dell’esistenza individuale, che nella sua unicità ha diritto di esistere e affermarsi senza temere di rimanere avviluppato nei meandri di ciò che è stato. Attraverso una storia familiare emblematica, Ginzburg ci fa entrare con preziosa raffinatezza negli interstizi dei sentimenti contrastanti che abitano ogni legame profondo, scandagliando con affilata precisione le differenti facce dell’amore, per regalarci poi lo spiraglio di una luce capace di indicare la via verso una nuova, più consapevole cara-pace.