Il secondo volume de “Il postumano” di Rosi Braidotti si situa in un dibattito filosofico complesso e ricco di punti di vista. Il primo volume è stato pubblicato nel 2013, in un periodo in cui, in ambito accademico e non solo, stavano aumentando le posizioni ostili all’idea di postumano. Questo secondo libro, pubblicato in inglese nel 2019 e tradotto da Angela Balzano per DeriveApprodi nel 2022, invece si pone in dialogo con le ormai molte teorie che riconoscono l’importanza del ruolo di agenti in/post/a/umani in un’epoca di cambiamenti tecnologici, climatici e devastazione ambientale.
Braidotti è consapevole delle contraddizioni insite in quella che chiama la convergenza postumana emersa dall’incrocio tra postumanesimo e postantropocentrismo. Già nel primo volume aveva delineato il percorso storico e culturale che ci ha condotto alla nostra attuale condizione, portando al dibattito un punto di vista situato e femminista. Adesso, come allora, propone una distinzione netta tra le critiche poste all’Umanesimo europeo e quelle all’antropocentrismo, ricordando le importanti conseguenze etiche e politiche che le critiche all’Umanesimo avevano innescato nella seconda metà del XX secolo. Come lei stessa afferma:
“Le critiche all’Umanesimo europeo sono state storicamente espresse dai soggetti che rappresentano l’alterità antropomorfa dell’Uomo – cioè gli altri sessualizzati e razzializzati che hanno saputo rivendicare il loro diritti rifiutando l’esclusione, la marginalizzazione e la squalifica simbolica”.
L’insistenza su questa separazione e sull’importanza del ruolo dei soggetti marginalizzati, sessualizzati, razzializzati e naturalizzati, le permette di individuare processi che hanno un’agentività, che si sottraggono alle rovine dell’eurocentrismo affermando pratiche politiche trasformative e alternative a quelle dominanti.
La critica all’antropocentrismo d’altra canto le consente di allargare lo sguardo dal bios (umano) verso nuove soggettività zoe/geo/teconologiche mettendo in moto altre categorie di attori e complesse reti di relazioni affettive.
Tuttavia in tale complessità è facile inciampare in semplificazioni e rappresentazioni di una figura generica e indifferenziata dell’essere umano. La sfida dell’autrice è quella di situare con attenzione l’affermazione “noi umani” e “definire ciò che siamo capaci di diventare, sapendo che noi non siamo né l’Uno né il Medesimo”.
In un periodo in cui siamo attraversati da tensioni violente e flussi compositi, sentiamo un senso di vulnerabilità e sfinimento che ci sta progressivamente allontanando da soluzioni politiche universali e onnicomprensive. Il riconoscimento di queste emozioni negative e del nostro limite, per Braidotti, non sono la condizione inevitabile del nostro presente ma anzi sono un trampolino di lancio per l’emergere di un’etica affermativa e relazionale costruita da una “molteplicità di posizioni incarnate e situate, che assumono la complessità come forza e definiscono il loro nesso comune in una prassi politica composta da un caleidoscopio di visioni differenziali”.
L’attenzione è rivolta a quei processi di soggettivazione che sono in grado di generare un sapere adeguato nel e per il mondo e un’etica basata su relazioni affettive. Il suo è un approccio filosofico neomaterialista della vita che rifiuta ogni forma di ontologia indifferenziata e piatta. Questo le permette di ricollocare politicamente i soggetti antropomorfi, in un momento in cui la centralità dell’«Uomo» viene meno, sottraendoli a qualsiasi pretesa di eccezionalità.
L’autrice rifugge qualsiasi visione relativista, riprendendo il pensiero di Viverios de Castro, ci parla di prospettivismo per cui la verità insita nel relativo è la relazione. Ciò che viviamo è sempre materialmente collocato nei corpi e in uno spazio specifico. Partire da una prospettiva immanente non significa rimanere fermi in una visione parziale ma poter attraversare e farsi attraversare da relazioni e da punti di vista anche contraddittori in un processo di continua trasformazione e assemblaggio.
Non mancano le critiche. Come quella nei confronti dalla Actor Network Theory che grazie a Bruno Latour ha messo in discussione la tradizionale distinzione tra soggetto e oggetto e ha rielaborato le modalità relazionali dei soggetti in un’ottica di assemblaggi eterogenei ma d’altro canto ha depotenziato il ruolo di soggettività incarnate e situate nel processo di produzione della conoscenza. Secondo Braidotti nel contesto della ANT, le analisi mosse a partire da genere, sessualità, classe o razza vengono spesso derubricate perché troppo politicizzate, creando delle difficoltà nella creazione di pensiero etico e politico. Simile a questa ma di maggiore portata è la critica alla teoria degli «iperoggetti» di Timothy Morton e più in generale alla teoria dell’«ontologia orientata agli oggetti». L’autrice le associa ad alcune tendenze del transumanesimo, nella loro inclinazione a collocare il razionalismo al di fuori dell’umano, in una corrispondenza tra pensiero e essere che fa dell’umano un agente nullo, squalificando del tutto le potenzialità politiche di soggettività e desideri alternativi.
Braidotti invita piuttosto a guardare al potenziale della immaginazione, ma non come forza restrittiva (potestas) messa a valore dal capitalismo cognitivo e funzionale al potere scientifico e critico della maggioranza. Per questo si discosta nettamente anche da quelle teorie portate a un pessimismo da sindrome “dell’umano in pericolo” o al un tecno-entusiasmo che sottovaluta i rischi della pervasività del sistema capitalistico.
La filosofa italiana guarda con interesse invece alla forza affermativa (potentia) dell’immaginazione, che si può esprimere anche attraverso la proliferazione spasmodica di definizioni “bizzarre” ma che non si basa su emozioni negative e soprattutto presta attenzione alle minoranze marginalizzate, così facendo svela le verità del potere. Questa forza orienta la costruzione cooperativa di modi alternativi e postidentitari di situarsi-in-questa-convergenza-insieme, un’etica gioiosa che segue i tempi lenti delle relazioni con entità zeo/geo/tecnologiche e si oppone alle condizioni che limitano la nostra libertà.
Si potrebbe obbiettare che questa attitudine all’immaginazione sia tutta umana ma l’invito invece è quello a non considerare il sapere e la conoscenza come prerogativa dei soggetti antropomorfi ma come cose che hanno luogo nel mondo in cui coesistono specie organiche e artefatti tecnologici.
La condivisione della conoscenza è un tema centrale del libro. Tuttavia in questi anni in un quadro così composito e ricco di teorie sul postumano, la distinzione tra le forme di sapere asservite al capitalismo e le forme di sapere invece trasformative ed empatiche non è semplice. Il più delle volte questi saperi appaiono come le due facce della stessa medaglia.
L’autrice propone una metodologia per riuscire ad attraversare questo groviglio nella consapevolezza che è inestricabile.
Da un lato si può scegliere di seguire un filo nella direzione di quei saperi, squalificati come scienze minori, che funzionano attraverso assemblaggi relazionali e ibridazioni trasversali e che hanno dimostrato di avere potenziale di trasformazione radicale nella creazione di quei popoli-che-mancano. Saperi troppo spesso liquidati come ricerca attivista, per esempio come le teorie femministe, queer, LGBTIQ+, gli studi post e decolonilali e gli studi sulla disabilità.
E dall’altro, nella produzione di saperi postumani, si può creare la controparte concettuale della capacità di entrare in relazione, di essere affetti da e con molteplici altri, di indurre e provare affezioni. La metodologia è per forza di cose non lineare, multidirezionale, ibrida e sovradisciplinare, segue tempi ribelli e dinamici, per indurre i ricercatori e gli studenti a defamiliarizzare dalle loro abitudini, a uscire da una visione normativa di sé, fino a giungere al limite del mutamento qualitativo.
Gli esempi riportati sono molti, e attraversano campi differenti, dall’arte alla giurisprudenza, dalla pedagogia agli studi sulla disabilità o a nuove forme di empirismo. Tra i tanti, un caso interessante è quello del programma Forensic Architecture del Goldsmiths College di Londra. Un gruppo di ricercatrici e ricercatori che utilizzano le conoscenze sull’architettura per trasformare oggetti e sistemi in prove forensi giuridicamente valide nei dibattitti internazionali sulla giustizia climatica e sociale. Così facendo cambiano lo statuto ontologico di questi «oggetti oscuri», riposizionandoli come testimoni legali delle ingiustizie umane.
A differenza del primo libro sul postumano in cui si notava un atteggiamento difensivo, Braidotti in questo volume si confronta con un panorama molto cambiato e sfaccettato, per questo fa delle necessarie distinzioni tra teorie e posiziona il proprio pensiero in modo chiaro. L’evidente desiderio che muove l’autrice è quello di costruzione di una nuova università postumana, posizione e relazioni da cui parte.
La sensazione a volte troppo preponderante è che le soggettività a cui si rivolge abbiano come principale orizzonte di desiderio l’evoluzione del pensiero in ambito accademico. Tuttavia il libro offre anche altre vie di fuga e indica una prassi politica di sovversione della negatività e di resistenza a un capitalismo postumano delirante, nella consapevolezza che la forza vitale di zoe scorre indipendentemente dalle pretese e dalle aspettative umane e che “«Noi» possiamo solo farne parte, per un po’, agendo insieme a tanti altri”.