Di soprusi, ingiustizie e disuguaglianze è lastricata la narrativa cinese contemporanea, con la quale si intende solitamente quella scritta a partire dalla fine degli anni ’70, dopo la morte di Mao e con l’avvio delle riforme di mercato. È sufficiente pensare ad alcuni fra gli scrittori cinesi di oggi più noti e apprezzati dal pubblico italiano, come Mo Yan, premio Nobel per la letteratura nel 2012, Yu Hua, Yan Lianke, e altri. Generalmente, l’opera di questi autori si inserisce in un quadro di riflessione storica, spesso traumatica, concentrata in particolare sulla violenza e sul sangue che hanno attraversato il Novecento cinese, permeando profondamente la vita del Paese. Certo, non mancano i romanzi maggiormente interessati a una critica sociale più marcata e sferzante: su tutti, Il settimo giorno di Yu Hua (Feltrinelli 2017, trad. di Silvia Pozzi).
Nella maggioranza dei casi sopra citati, il focus rimane sulle diseguaglianze rurali, anche in virtù dell’origine contadina di molti autori. È però interessante dare uno sguardo alla rappresentazione letteraria dei fenomeni di disparità sociale in città, oggi più che mai centrali visti l’urbanizzazione massiccia e l’afflusso di milioni di migranti rurali nelle immense metropoli in cerca di fortuna. In particolare, lo faremo avvalendoci di autori nati fra gli anni ’70 e ’80, pubblicati anche in traduzione. La critica letteraria cinese tende talvolta a distinguere gli scrittori per decennio di nascita: abbiamo quindi i “post-70” (qilinghou), “post-80” (balinghou), e così via. Se il divario generazionale può giustamente apparirci, se non arbitrario, comunque non abissale – sicuramente chi è nato nel 1979 ha più in comune con suoi quasi coetanei del 1981 che con un 1971 –, bisogna comunque tenere conto delle trasformazioni rapidissime vissute dalla società cinese in quel periodo, dove nel giro di anni sono avvenute mutazioni che altrove hanno richiesto tempi ben più lunghi. Se queste trasformazioni sono sotto gli occhi di tutti, il loro impatto materiale, emotivo e psicologico su certe fasce della popolazione sfugge ai radar. Da qui, dunque, la curiosità di esplorare come questi cambiamenti abbiano trovato trasposizione letteraria in un gruppo, limitato ma rappresentativo, di autori che le hanno vissute. Preciso che il focus sarà sulla letteratura in traduzione, per consentire a chi legge, se riuscirò a stuzzicarne la curiosità, di poter saggiare in via diretta le opere qui citate.
Un caso emblematico è costituito dal romanzo breve Correndo attraverso Pechino di Xu Zechen (Sellerio 2014, trad. di Paolo Magagnin). Classe 1978 e astro nascente della narrativa cinese, Xu ha vinto nel 2019 il più prestigioso premio letterario in Cina, il Mao Dun, grazie al romanzo Beishang (A nord), che peraltro vede fra i protagonisti due viaggiatori italiani in una storia che parte dalla Cina di inizio Novecento e si dipana sino ad oggi. Tuttavia, Xu si è fatto un nome grazie soprattutto alla serie di racconti e romanzi brevi pubblicati nei primi anni 2000 – di cui il suddetto titolo è l’unico giuntoci in traduzione – e incentrati sulle vite dei giovani jingpiao, ovvero i migranti che si trasferiscono dalle campagne a Pechino e si arrabattano in città con lavori e occupazioni ai limiti della legalità.
Correndo attraverso Pechino condensa molti temi e stilemi tipici di Xu. Il protagonista, Dunhuang, è un venditore di DVD pirata appena uscito di prigione e pronto a riprendere la propria attività. La città si presenta come un luogo pieno di possibilità, che attendono solo di essere colte: appena uscito dal carcere, Dunhuang chiede all’autista del taxi di portarlo «qualunque posto andava bene, purché lo portasse fin dentro Pechino» [1]. Seguendolo nel suo sforzo di fare fortuna realizzando il sogno (neoliberale) di diventare imprenditore di se stesso, chi legge non può non confrontarsi con le enormi difficoltà (senza fare spoiler) che si frappongono a questa impresa, mentre Dunhuang tesse una serie di rapporti con altre/i migranti che aprono altrettante finestre su situazioni sociali. La miriade di possibilità ostentate dalla città si rivela insomma non alla portata di tutti, e non allo stesso modo.
L’amicizia è quindi il nuovo legame forgiato da migranti provenienti anche da luoghi diversi per superare la solitudine e lo spaesamento nella “terra straniera” costituita dalla città. Se c’è un’alternativa all’emarginazione, questa sembra essere costituita dai nuovi legami affettivi che i migranti sono in grado di tessere in città, che si configurano una forma di solidarietà spontanea – e, in genere, prettamente maschile (il Xu di quegli anni non è campione di questioni di genere) – fra “fuorilegge”, che ricorda un po’ le compagnie erranti di banditi della letteratura cinese classica. Le frequenti tempeste di sabbia che si abbattono sulla capitale offrono a Xu l’espediente ideale per restituire l’immagine dei migranti come pulviscolo sparso in preda alla tormenta, minuti nella loro singolarità, ma potenzialmente forti insieme. È però importante sottolineare che la sua narrativa non contiene alcuna esplicita critica sociale e non appartiene nemmeno alla corrente della cosiddetta “letteratura dei subalterni”, fenomeno particolarmente intenso in Cina nei primi anni 2000, che si proponeva appunto – non di rado con forme stereotipate e toni vittimistici – di rappresentare gli “ultimi” della società. Allo stesso tempo, è abbastanza distante anche dalla ricca “narrativa dei problemi” del primo Novecento [2]. Lo sguardo di Xu è invece più neutrale, con punte di humour, e più interessato a presentare le vite e gli escamotage di chi si trova a vivere nei bassifondi della società. Il focus insomma è più sugli individui che sui problemi storico-sociali.
Temi simili riaffiorano in Mosè sulla pianura, raccolta di racconti di Shuang Xuetao, scrittore nato nel 1983, freschissima di stampa (Atmosphere libri 2021, trad. – anch’essa – di Paolo Magagnin). Se a occupare i racconti di Xu Zechen erano i migranti rurali in città, chiamati i “nuovi lavoratori”, la narrazione di Shuang si rivolge invece ai cosiddetti “vecchi operai”, un tempo impiegati nelle mastodontiche industrie di Stato. Lo sfondo dei racconti di Shuang sono infatti i grandi distretti industriali del Nordest, in pieno processo di privatizzazione negli anni ’90, processo che non solo chiuse molte fabbriche, ma sancì anche la fine di un mondo, quello delle grandi “unità di lavoro” (danwei) che provvedevano anche al welfare e alla vita privata degli operai. È uno sfondo grigio e decadente, foriero di criminalità e prepotenze, ben lontano dai gloriosi fasti del socialismo. Anche in questo caso la tematica sociale non è affrontata direttamente, ma funge da onnipresente background di trame ora poliziesche, ora surreali, sempre intrise di forte spiritualità.
Difficile trovare conforto nell’azione morale in un contesto di totale crisi dei codici valoriali, sgretolamento di impalcature sociali e di violenza serpeggiante. Gli individui appaiono a prima vista alla mercè di una storia che incide indifferente sulla base di decisioni calate dall’alto, sradicati dalle loro abitazioni, demolite nei piani di ristrutturazione urbana, o dai lavori che svolgevano. Atti mossi da empatia e considerazione per il prossimo riescono però a controbilanciare col cinismo imperante (non diversamente dai legami affettivi in Xu Zechen). Se questo ci fa tirare un sospiro di sollievo, d’altro canto fa comunque emergere in controluce un giudizio tutt’altro che assolutorio per un tipo di rapporti sociali pervasi dalla legge del profitto. La figura dell’operaia/o viene sottratta dalla mitizzazione eroico-romantica e riportata, non senza crudezza, su un piano ben più reale e, pertanto, contraddittorio.
Qui le storie individuali – che si dipanano appunto in storie anche molto diverse per genere e contenuto – si confondono con la memoria storica: «Tic tac, ticchettano i giorni mentre la vita avanti. Io sono rimasta qui. Sono rimasta a guardare mentre tic tac, ogni cosa va avanti» [3]. Non è un caso che diversi personaggi siano bambini: in un certo senso, Shuang dà voce a una generazione che ha vissuto quegli anni con gli occhi dell’infanzia o dell’adolescenza, quando cioè la transizione della storia ha coinciso con importanti cambiamenti di vita, spesso con un cesure nette.
Il tema dello sfruttamento ricompare – in modo peraltro ben più marcato – Marea tossica (Mondadori 2020, trad. – ottima ma, ahinoi, dall’inglese – di Benedetta Tavani), capolavoro di Chen Qiufan (1981), considerato il massimo interprete del cyber punk cinese. Il romanzo di fantascienza è ambientato a Silicon Isle, discarica per i rifiuti tecnologici destinati al riciclo, dove si consumano feroci lotte fra gang, intrecciate a una rete di interessi commerciali multinazionali. A popolare la storia, che peraltro beneficia dal ritmo incalzate del thriller, sono personaggi e storie che parlano di realtà ben evidenti: l’avanzamento tecnologico con i suoi annessi e connessi in termini di umanità, disumanità e post-umanità, ma anche di sorveglianza; lo sfruttamento feroce della manodopera migrante a basso costo; dinamiche, costi e conseguenze del capitalismo globale e della divisione internazionale del lavoro, specie in termini umani e ambientali. Mimi, una delle protagoniste, incarna tutto questo: operaia migrante supersfruttata, entra accidentalmente a contatto con un’arma biologica che agisce sul cervello, ma che diventa catastroficamente difettosa proprio perché collide con i metalli assorbiti dalla ragazza a forza di lavorare in condizioni deleterie per la propria salute.
Quasi nessuno di questi temi è propriamente fantascientifico: la trama sembra riferirsi più a una dimensione ben reale e “presente”. In effetti Marea tossica, proprio poiché investe in pieno le tematiche intrecciate dello sfruttamento del lavoro (migrante) e dell’ambiente, rappresenta una piena applicazione dell’idea di Chen secondo cui la fantascienza come il vero realismo di oggi [4]. E non tanto perché consenta di eludere la censura affrontando temi altrimenti tabù, quanto per una consapevole ricerca, da parte di certi scrittori, di raggiungere angolature dello “stato di cose presente” che lo sguardo realista non è in grado di captare con altrettanta intensità. Del resto, basta leggersi Red Mirror di Simone Pieranni per rendersi conto di quanto la realtà cinese attuale sia “fantascientifica” [5] (Pulp ha avuto modo di occuparsene a più riprese [6]): forse, quindi, oggi l’unico modo per poterne scrivere con efficacia è anticiparne gli sviluppi, anche di poco, riuscendo a criticare la realtà attuale dalla prospettiva di un “fra poco” che è comunque già in nuce.
Non a caso, dunque, la fantascienza è stata in grado di offrire una raffigurazione delle diseguaglianze urbane di un’intensità e un’efficacia forse oggi irraggiungibili dal più critico dei realismi. Stiamo parlando del pionieristico Pechino pieghevole, racconto scritto quasi amatorialmente dalla giovane Hao Jingfang (n. 1984) nel 2012 e lanciato alla ribalta dalla vittoria del premio Hugo nel 2016 (in programma l’adattamento cinematografico). Nel racconto, recentemente uscito in un’omonima raccolta per i tipi di add editore (trad. Silvia Pozzi), un’avveniristica quanto distopica tecnologia ha permesso di ovviare al problema dell’aumento della popolazione e dell’espansione urbana di Pechino: la città, infatti, si accartoccia o si dilata a seconda delle ore del giorno e della notte, con un giorno intero totalmente a disposizione della borghesia del centro e altre ventiquattr’ore da suddividere fra la zona intermedia e la periferia, dove vivono i ceti più bassi. Il viaggio del protagonista Lao Dao, che si intrufola clandestinamente nel distretto “superiore” per compiere una missione, offre all’autrice diversi spunti per criticare, anche piuttosto esplicitamente, un sistema sociale basato sulle disparità e sul vantaggio di pochi. L’“esagerazione” della città che si piega su se stessa è sì l’elemento fantascientifico più netto del racconto, ma racchiude una inquietante verosimiglianza: si pensi, per esempio, ai recenti sforzi compiuti dalla capitale cinese per ridurre la popolazione espellendo fette consistenti di lavoratori migranti.
E infatti, la realtà spinge in modo così urgente che porta il protagonista, al termine del suo viaggio, a porsi la stessa domanda che ha angustiato generazioni di scrittori cinesi dai primi anni del secolo scorso: «Non capiva quale scopo avesse comprendere la realtà delle cose. Che senso aveva vederci chiaro se poi non potevi fare nulla per cambiare? E lui non ci vedeva nemmeno chiaro: [f]orse contava meno di un granello di polvere». [7] Chi conosce Lu Xun (1881-1936), considerato padre della letteratura cinese moderna e, di certo, uno dei suoi più brillanti esponenti, troverà in queste parole un’eco della «casa di ferro senza finestre, praticamente indistruttibile, con tanta gente addormentata sul punto di morire asfissiata» [8], all’interno della quale c’è un unico soggetto sveglio, il quale rimane indeciso se svegliare gli altri per cercare una soluzione che appare impossibile, o risparmiare loro il tormento, lasciandoli dormire. Elaborata negli anni ’20 del secolo scorso, in un’epoca di grande fermento politico e di intensa mobilitazione degli intellettuali, l’ormai famosa metafora della casa di ferro dava (e dà) voce all’angoscia provata dinanzi a un presente che appare ineluttabile e soverchiante: ha senso risvegliare le coscienze, se poi non c’è nessuna certezza di riuscire a trovare un modo di sconfiggere i mali del mondo? È significativo che la questione riemerga in un’opera di fantascienza, a sostegno di quanto detto sin qui.
La città cinese si presenta insomma come uno spazio sociale estremamente complesso, composto da più strati e che si presta pertanto a molteplici letture, sulla base delle esperienze più variegate. Dal passato perso nella memoria dei personaggi di Shuang Xuetao, al presente mimetico di Xu Zechen, fino ai futuri fantascientifici forse non così “fanta” di Hao Jingfang e Chen Qiufan, gli spunti che giungono dal mondo letterario cinese suggeriscono infatti una ricca, ricchissima varietà di sguardi possibili sulla realtà: sullo sfondo o al centro, esprimendosi con le forme espressive del presente o aggirandole con tuffi futuribili… Non spetta certo alle scrittrici e agli scrittori immaginare la via d’uscita dalla casa di ferro, ma qualche spiraglio di luce ce lo offrono senz’altro.
NOTE
1] Xu Zechen, Correndo attraverso Pechino, Sellerio 2014, trad. Paolo Magagnin, p. 10
2] Per approfondimenti sulla “letteratura dei subalterni”, si veda Giulia Rampolla, “Dalle lusinghe del capitalismo al disincanto della transizione: breve introduzione alla narrativa delle classi subalterne”, in Tommaso Pellin e Giorgio Trentin (a cura di), Associazione Italiana di Studi Cinesi. Atti del XV convegno 2015, Cafoscarina 2017. Per la narrativa dei problemi, cfr. Nicoletta Pesaro e Melinda Pirazzoli, La narrativa cinese del Novecento. Autori, opere, correnti, Carocci 2019.
3] Shuang Xuetao, Mosè sulla pianura, Atmosphere libri, 2021, trad. Paolo Magagnin, p. 72.
4] Chen Qiufan, “Kehuan shi zui da de xianshizhuyi” (La fantascienza è la più grande forma di realismo), Shangye jiazhi, 2015.
5] Simone Pieranni, Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina, Laterza 2020.
6] Si veda Fabio Malagnini, “Fantascienza con caratteristiche cinesi”, 29 settembre 2020, e “Mu Ming. Distopie cinesi”, 11 marzo 2021.
7] Hao Jingfang, Pechino pieghevole, add editore, trad. Silvia Pozzi, p. 50.
8] Lu Xun, “Prefazione” ad Alle armi, in Fuga sulla luna, Garzanti 1973, trad. Primerose Gigliesi, p. 10.