La buona vista di Andre Dubus

Andre Dubus, Riflessioni da una sedia a rotelle, tr. Nicola Manuppelli, Mattioli 1885, pp. 176, euro 16,00 stampa

Andre Dubus, veterano del racconto americano, torna in libreria con la seconda raccolta di saggi dal titolo peculiare e che svela la natura autobiografica di ciascun saggio. La vita di Dubus ha inizio nel 1936 e le vicende storiche (la serie di guerre in cui gli Stati Uniti sono coinvolti e protagonisti) lega a doppio filo l’inizio dell’età matura dell’autore al servizio militare, un mondo che affascina Dubus benché consapevole delle caratteristiche tanto intrinseche quanto spiacevoli di tale periodo di leva. Dopo aver preso congedo, la carriera letteraria ha inizio, apparentemente umile ma che lo porta a insegnare Lettere in varie strutture, costringendo l’autore e la famiglia a diverse trasferte. La famiglia è un altro fulcro essenziale nella mitologia dubusiana, ovvero il legame di sangue che spesso non si estrinseca in dirette dimostrazioni di affetto, quanto in tante piccole schegge di amore (coniugale e filiale) che l’autore riesce a intercettare grazie a una straordinaria sensibilità intima e a un punto di vista quasi fanciullesco, mediato però dalla nevrosi della vita adulta in cui è costretto controvoglia a barcamenarsi.

Un altro topos letterario è l’invalidità, giunta nel 1987 dopo un tragico incidente tra automobili: le gambe non saranno più sanate e la passione per la corsa, così come per il movimento fisico, sarà sostituita da un’annichilente sequenza di preoccupazioni sia mentali sia fisiche per provare a essere di nuovo padrone della propria vita. In tutto questo lo scrittore deve anche affrontare le vicende della sua seconda famiglia, la separazione dalla sua seconda moglie e la distanza fisica dalle due figlie piccole.

La facilità con cui Dubus riesce a collegare aspetti apparentemente distanti della sua esperienza terrena, la delicatezza ma anche la concretezza con cui gli aspetti secondari – quelli che non fanno tremare i poeti – vengono narrati, sono invidiabili: da una parte ci troviamo di fronte a un autore costantemente appassionato di vita, nonostante il grave handicap e le idiosincrasie presenti nei rapporti umani, riguardanti il lavoro e il lavoro culturale. Dall’altra la fede in Dio, un dio diverso da quello raccontato dal clero, molto più vicino alla sfera terrena in cui Dubus prova a orientarsi.

Volendo fare un confronto stilistico con i diari di John Cheever, iconico bisessuale passivo-aggressivo ed eccentrico narcisista, Dubus si pone all’altro capo dell’esperienza umana, continuando ad ammirare le meraviglie del creato senza porre fine allo stupore infantile e sincero che gronda copioso tra le righe. È un punto di vista differente: dell’osservatore imparziale, del fotografo che ha bene in mente le caratteristiche tecniche di un buono scatto e di come arrivare a ottenerlo, ma con il sorriso di chi ha capito di aver assistito a un miracolo. Un miracolo costante, ovvero la vita medesima: sempre se ci fidiamo di Dubus.