L’amore per una persona e il desiderio di preservarla possono coesistere con il rifiuto, l’odio e la volontà di andare oltre? La scrittrice sudcoreana Kwon Yeo-sun cerca di indagare questo dissidio nel suo primo romanzo, Lemon, nato originalmente come racconto dal titolo You Do Not Know e successivamente ampliato.
Durante la fine dei campionati mondiali di calcio, nel giugno del 2002, il corpo della giovane diciottenne Kim Hae-on viene ritrovato a Seoul, dando luogo al crimine che verrà ricordato come “l’omicidio della bella del liceo”. La polizia è alla ricerca di un colpevole, e i candidati più appetibili sono due compagni di classe di Kim. Shi Jeong-jun è stato riconosciuto mentre accompagnava in automobile la ragazza proprio la sera del delitto, mentre Han Manu ha ammesso di averla notata durante l’orario di lavoro. Ed è proprio con la ricostruzione degli interrogatori che la voce di Dae-on, sorella minore della vittima, inizia a raccontare la sua storia. Ma il caso non è risolto e viene chiuso, ma ancora più irrisolto è il vuoto che questo atto provoca nella comunità degli studenti e nelle persone vicine alla ragazza. Fra le aule aleggia una sensazione di irrealtà spettrale, anche se gli studenti continuano a ridere e scherzare, ma è un’allegria che stona, diversa da quella familiarità naturale che precedeva l’omicidio.
Il racconto di Dae-on è una creazione compulsiva di teorie e trame dell’accaduto sempre diverse. La ragazza vive in una realtà fittizia, slittata, in cui ricostruisce scenari anche plausibili, ma inevitabilmente solo confacenti alla sua esigenza di risposte. Questo castello di carte, minuziosamente costruito, deve essere preservato contro ogni versione incompatibile. Da adulta Dae-on incontrerà persone interessate alla morte della sorella, ma le respingerà e nella loro mente lei rimarrà solo un’immagine sfocata. Voci diverse si alternano, ognuna pronta ad aggiungere e togliere un tassello alla storia, per lasciare che il lettore tragga le proprie conclusioni rispetto alle diverse alternative che si profilano.
L’intera narrazione è attraversata dall’incapacità di attribuire senso al reale nel momento in cui un tassello fondamentale viene a mancare, distruggendo così la rete che permette ai vari personaggi di muoversi naturalmente nella vita quotidiana. I connotati di chi vive questi ambienti si perdono oppure non riescono a essere ricondotti alle persone a cui appartengono.
L’autrice, in particolare, utilizza il cibo per strutturare l’immaginario dei suoi personaggi, un elemento quanto più quotidiano, familiare e poco soggetto a seconde interpretazioni, per cui leggiamo frasi come: “un sorriso che era riuscito a trasformare il suo volto emaciato simile a un cetriolo in un lucente melone d’inverno” oppure “indossava un parka color melanzana […] era talmente goffa da sembrare una melanzana ripiena”.
Lo stesso titolo del libro riprende il nome di un frutto, il limone, emblematico del colore dell’abito con cui è stata rinvenuta la vittima dopo il suo decesso, una macchia così accecante da confondersi nei ricordi di chi ha visto per l’ultima volta Kim Hae-on, fino a venir meno ed essere irriconoscibile anche anni dopo.
Per quanto Dae-on si rinchiuda nella sua versione, con lo scorrere delle pagine sorge, a chi la vede dal di fuori, un sentimento sconosciuto: il risentimento, provato proprio per quella stessa sorella compianta tanto da desiderare di fermarne il ricordo, il corpo, da andare in una clinica per chirurgia estetica e modificare i propri connotati per preservarne l’immagine, ma un virus la infetta e ne riduce il volto a una maschera grottesca. Un risentimento non per la sua morte, quanto per ciò che è stata in vita, per la crudeltà disinteressata che la ha caratterizzata da sempre, ma di cui nessuno sembrava accorgersi: una Lady Macbeth asiatica, con il cuore così bianco da cancellare le proprie azioni rendendosi immacolata di fronte agli occhi altrui.
Lo stile che Kwon Yeo-sun utilizza esige che il lettore si faccia guidare nella storia che ha creato, perché ogni parola sembra condurre a qualcos’altro, e a ogni capitolo le diverse voci narranti sembrano quasi confondersi fra di loro, mentre chi legge capisce chi è che ha compiuto il delitto, nei personaggi dimora un’incertezza che li ha avvolti per l’intera esistenza senza mai raggiungere una certezza.
La stessa autrice ci illude, facendoci credere di affrontare un testo classico del genere, ma in realtà lo riformula e, proprio come in una situazione realistica, la soluzione è davanti agli occhi, ma non viene vista. Il tutto seguendo un percorso non lineare, in cui non vi è nessun eroe che possa risolvere il delitto e in poco meno di 150 pagine, la sua penna riesce a offrire temi di ampio respiro, come quello della vita e della morte, mostrando come nell’esistenza di chiunque mai esistano entità eque, scevre di paura, ordinarie, ma terrorizzanti e affascinanti allo stesso tempo.