Negli ultimi decenni la filosofia si è spesso immaginata, e in qualche caso è anche stata, punk. Non solo, ma anche cyberpunk, oppure k-punk, nel caso di Mark Fisher. Meno ovvia, invece, è stata la sua storia legata al metal, anche se il primo simposio di Black Metal Theory risale, in realtà, a più di dieci anni fa. Al metallo, in tutte le sue declinazioni, si è sempre associata una certa “barbarie”, né dialettica né anti-dialettica – e molto diversa da quella, ritenuta tutto sommato “creativa” o perlomeno “impegnata”, del punk –, barbarie che è presto diventata un comodo stereotipo. Non privo di fondamenti, come talvolta si dice degli stereotipi, ma scarsamente fungibile, in quanto tale, in vista di nuove elaborazioni.
Tornare dunque ad associare teoria e metal rappresenta una sfida tutt’altro che semplice: a raccoglierla è una recente antologia di saggi curata da Claudio Kulesko e Gioele P. Cima per D editore (responsabile di una confezione editoriale superba, perfettamente in sintonia con i temi del libro) e dall’inequivocabile titolo di Metal Theory. Come recita un’avvertenza che si incontra molto presto, nel libro, con questi interventi si intende “fare teoria con il metal”, non sul metal o del metal – evitando, cioè, di fare di questa musica e dei suoi scenari culturali e politici un elemento ancillare della speculazione teorica e filosofica, bensì instaurando processi di continua contaminazione. Naturalmente, si tratta di una sfida così complessa e avvincente da rendere impossibile una risposta che copra l’intero panorama del metal passato e presente, o le diverse sfaccettature del suo pubblico: lo hanno dimostrato lunghe sequele di commenti alla recensione del libro sui siti musicali specializzati. In ogni caso, l’aporia non è soltanto metallica, ma sembra legata a tutti quegli approcci – tipici, in prima battuta, degli studi culturali – che si trovino a incontrarsi, e scontrarsi, con una fandom lontana, per i motivi più diversi, da interessi teorici. E non è un’aporia che possa essere risolta andando a caccia dei generi, degli artisti e delle declinazioni teoriche, o pratiche, non presenti nel libro. Chi legge potrà misurare cosa manchi, secondo i propri standard e gusti, in un volume che non tratta direttamente trash, doom, stoner o crust metal – per nominare soltanto alcuni dei possibili generi esclusi – né una lista infinita di band, ma questo non inficia, di per sé, l’operazione curata da Cima e Kulesko.
Si potrebbe usare lo stesso argomento, in fondo, anche dal punto di vista della produzione teorica: potrebbe, infatti, sorprendere il fatto che l’enfasi su alcuni punti – black e death metal, su tutti – corrisponda al silenzio su altri – dal solipsismo tecnofilo del virtuosismo alla possibilità di un “metal postcoloniale” (dai Divide & Dissolve e Dispossessed, in Australia, ai Wrust e Overthrust, nell’Africa meridionale, ecc.), passando per l’incompatibilità ideologica della stragrande maggioranza del metal con il marxismo (un dato, quest’ultimo, che è comunque accennato, en passant, nel libro). Misurare le assenze vuol dire mancare il punto focale di Metal Theory, ovvero la proposta di fare teoria con il metal, restituirlo alla sua qualità di metallo pe(n)sante. Anzi, come scrivono Kulesko e Cima nell’introduzione, “[a] lla luce delle rimostranze di Adorno nei confronti del jazz e del bebop – in quanto musica di consumo, dal carattere pseudo-ribelle – si potrebbe quasi dire che il metal estremo rappresenti uno degli ultimi, veri baluardi del modernismo filosofico”. Forse la categorizzazione è ardita, e forse si potrebbe applicare anche ad altri territori musicali – si pensi al massimalismo di certo noise, imparentato anche formalmente con il rumorismo, o bruitisme, di inizio Novecento –, ma questo non rende meno efficace l’accostamento metaforico, soprattutto per le estetiche metal più radicali, e il ripensamento complessivo che questo spunto può catalizzare.
Ora, se i primi interventi del libro, a firma di Mortdecay West e Irene Sottile, vanno proprio in questa direzione “estrema” – occupandosi, appunto, di death e black metal – a discostarsene, almeno parzialmente, è il contributo di Claudio Kulesko, animato invece dall’epic metal dei Blind Guardian. Indagando il rapporto tra creazione psico-cosmica – comune a molte scritture contemporanee, weird e non – e la sonic fiction – secondo la definizione resa celebre, in un altro ambito musicale, da Più brillante del sole (NOT, 2021) di Kodwo Eshun – dell’epic metal, Kulesko adotta un approccio che, in vari punti, è blandamente narrativo, tendendo così verso un orizzonte stilistico che mescola saggismo e narrazione e guardando, implicitamente, a un recente ibrido tra questi poli come la theory fiction. Del resto, se si vuole pensare con il metal, il metamorfismo formale è uno dei possibili effetti, e non è casuale che una risultanza stilistica piuttosto simile emerga anche dal successivo contributo di Nicola Zolin e Davide Tolfo, “XIII. Black Sabbath: genesi inumana”.
Torna, invece, a forme più canoniche l’intervento di Lorenzo Marsili e Giulia Scorsino, “Jonathan Davis e la maschilità beta”: la costruzione di questo tipo di maschilità adolescenziale, nei testi e nelle musiche dei Korn, fa da contraltare a quelle forme di maschilità, alfa o anche incel, che si associano comunemente al metal, nel suo complesso, in virtù del cliché già menzionato. Piuttosto tecnico è anche il contributo “L’identico e il negativo. Sul pellegrinaggio verticale del drone” di Paolo Berti, nel quale si traccia l’evoluzione storica del bordone fino ai suoi esiti drone nel genere doom – dando particolare enfasi, in realtà, a un gruppo non sempre e non propriamente “metallico”, ma certamente imprescindibile in questo discorso, come gli Earth di Dylan Carlson.
Ritornando poi alla black metal theory, Gioele Cima si occupa di Enemy of the Sun dei Neurosis, uscito in quel 1993 che, a trent’anni di distanza, si rivela anno di grazia, nonché di svolta, di molte scene musicali, mentre Rosalba Nodari va al cuore di uno dei problemi principali aperti dal black metal, ovvero le su sue “retoriche dell’autentico”, e insiste di nuovo sulla possibilità di pensare con il metal, ovvero su un movimento del pensiero “che vada non tanto dall’accademia verso il black metal, bensì in una direzione di annerimento del discorso accademico, con l’intenzione di caricare quest’ultimo di un nuovo potere eversivo di attacco all’istituzione accademica”. Un auspicio che i contributi del libro, insieme ad alcuni dei referenti teorici aggiornati e innovativi adottati dagli autori (segnatevi il nome di Ray Brassier, filosofo ancora inedito in Italia), rendono sempre più concreto e fattibile. In fondo, gli interrogativi che ne possono nascere finiscono per coincidere con la torsione del classico deleuziano che permea l’interrogativo finale del saggio conclusivo del libro, a firma di Milena Guaglini: “Il goregrind è la necrosi della filosofia, e la sua sintesi non ci lascia scampo: che cosa può un cadavere?”.