Kuki Shūzō (1888-1941) è stato un poeta e filosofo dandy, negli anni Venti fu attivo in Europa fino a diventare conoscente e amico di Bergson, Sartre, Claudel e Heidegger. Visitò rapidamente l’Italia, sostò per alcuni anni a Parigi e Marburgo. Alla fine della stagione occidentale, nel ’30, tornò a Kyoto, dove fu docente di filosofia all’Università Imperiale. In quell’anno pubblicò La struttura dell’iki, oggi riproposto nella collana Gli Adelphi. Iki è un termine che rimanda al veemente fascino (ossia, alla “grazia ineffabile”) della geisha e può significare “seduzione”, ma anche “energia spirituale” e “rinuncia”. Heidegger cita Kuki e le sue teorie nel saggio Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, contenuto nella celebre raccolta In cammino verso il linguaggio (1954), opera di svolta nel cosiddetto secondo tempo dell’autore di Meßkirch.
È indubbio il fascino che questo giovane studioso nipponico, “introverso e solitario”, esercita sui suoi colleghi europei. Kuki, sin dai primi anni di formazione, “sapeva che caso e destino, insieme ad anima e corpo, passione e ragione, sarebbero state le parole chiave della sua vita”, come scrive Baccini nel saggio introduttivo. In effetti, l’intera sua esistenza è stata improntata al malinconico vagheggiamento di un pensiero che spiegasse il tutto. Iki si presta benissimo alla causa, ed è la vera conquista intellettuale di Kuki al pari dell’Essere heideggeriano: “Nelle lingue europee vi sono parole soltanto simili a iki, ma non vi si può trovare l’esatto equivalente. Nulla impedisce allora di considerare l’iki una evidente automanifestazione del modo d’essere specifico della cultura orientale o, per meglio dire, della razza Yamato”.
Il libro, oltre a possedere un’introduzione e una conclusione, è suddiviso in quattro parti: La struttura intensiva dell’iki; La struttura estensiva dell’iki; L’espressione naturale dell’iki; L’espressione artistica dell’iki. Da tali intestazioni possiamo immediatamente notare l’essenza dicotomica della filosofia di Kuki. Essenza che si esplica al meglio nel tellurico passaggio dal primo movimento, la “seduzione”, all’ultimo, la “rinuncia”. Se la “seduzione” è l’ornatura primaria, legata alla dimensione erotica, l’“energia spirituale” – caratteristica del samurai – non fa che rafforzarne il contenuto, in direzione della risultante ossimorica racchiusa nella “rinuncia” (qualità dei bonzi). Una seduzione che rinuncia: è appunto questo l’iki, l’emblema stesso – compiuto sotto il profilo ontologico – dell’incanto e della malia che coniugano prerogative estetiche ed etiche.
La più chiara definizione di iki nel testo si ha sotto forma di interrogazione: “Se abbiamo definito l’iki come un fenomeno di coscienza ricco di qualità, come ‘seduzione’ che si realizza ontologicamente grazie all’ideale etico del Bushidô e all’Irrealtà buddhista, non potremo forse dire che è ‘attrattiva erotica (seduzione) capace di sprezzatura (rinuncia) e dotata di tensione (energia spirituale)’?”
È evidente, per le antinomie delle teoresi orientali, che l’attributo desiderante dell’iki, l’attrattiva erotica in tensione, tocca il suo apice in quella “sprezzatura” che a sua volta coincide con una liberazione dal “mondo instabile” e dalle “aspettative non esaudite”. Ma l’iki è rintracciabile soprattutto nella realtà concreta (un po’ come l’essere rock): in un vestito di stoffa, negli arabeschi descritti dalle mani, nei cenni allusivi, nelle “figure sottili e slanciate” di El Greco. Una bellezza aggraziata, mai volgare, tiepida e delicata che vale come un principio d’essere. “Quando dietro un sorriso leggiadro e seducente si sarà scorta la traccia quasi impercettibile di lacrime cocenti e sincere, solo allora si sarà riusciti a comprendere la verità dell’iki”.