Penetrare dalla porta di servizio in casa di uno dei massimi protagonisti della cultura contemporanea e sbirciare di soppiatto dietro le quinte, nella sua intimità quotidiana, fra garage, uffici e magazzini, razzolando in mezzo agli animali domestici e presidiando camere e salotti privati, guardaroba e dispensa, ci offre di lui una conoscenza ben più profonda e autentica di qualsiasi paludato saggio critico o indiscreta biografia più o meno scandalistica: ci rivela l’uomo, al di là e oltre il personaggio. In particolare se il personaggio in questione è un uomo così timido, sfuggente, riservato e inarrivabile come Stanley Kubrick.
È però solo con amore, rispetto e delicatezza che si può compiere una simile visita senza che diventi un’intrusione, ed è solo una persona di famiglia che davvero può farsi anfitrione di un percorso così confidenziale e riservato. È il caso di Emilio D’Alessandro, per quasi trent’anni autista, factotum, segretario personale e – molto oltre e molto più che dipendente e collaboratore – vero amico del grande cineasta statunitense.
Emilio, persona di grande simpatia, umanità e saggezza, ci regala, con queste sue memorie raccolte con l’aiuto di Filippo Ulivieri – uno dei massimi esperti kubrickiani in Italia e curatore del sito archiviokubrick – un libro delizioso, Stanley Kubrick e me, e un altrettanto delizioso film a esso ispirato, S is for Stanley, sceneggiato da Ulivieri e diretto da Alex Infascelli, vincitore del David di Donatello 2016 come miglior documentario.
Emilio, nativo di Montecassino emigrato a Londra nel 1960 e sposato a un’inglese, entra nella vita di Kubrick per caso, trasportando come tassista privato per la Mac’s Minicabs, sul set della Hawk Films, la statua a forma di fallo della celeberrima scena di Clockwork Orange. Se Emilio ignora tutto di cinema e non ha la più pallida idea di chi sia Kubrick, la sua passata carriera di pilota di formula uno nei circuiti britannici attira invece su di lui l’attenzione di Stanley che lo prende in prova come autista personale. Conquistato dalla guida rilassata e sicura e dalla precisione scrupolosa con cui svolge i suoi compiti Kubrick gli propone quasi da subito un lavoro permanente. Le condizioni sono draconiane: “Ho bisogno che lei sia presente quando mi serve, anche se può succedere una sera dopo cena. E quando giro un film, devo poter contare sui miei assistenti sempre. (…) Non si lasci sedurre da ciò che dicono i sindacalisti, le darò io tutto quello di cui avrà bisogno”.
“Non ti far mai vedere con le mani in mano. Perché Stanley ti guarda, tu non lo vedi ma lui sì”, – lo avverte Andros, il collega greco – “E chi è, il Padreterno?” – obbietta Emilio – “Una specie”, – conclude Andros. L’avvertimento è superfluo perché Emilio è un lavoratore serio e infaticabile, proprio come Kubrick, i due sembrano fatti apposta per intendersi. Il vademecum a cui attenersi, apposto dallo stesso Kubrick a sovrintendere studi e bureau è il seguente: “Se l’hai aperto, chiudilo. Se l’hai acceso, spegnilo. Se l’hai sbloccato, ribloccalo. Se l’hai rotto, riparalo. Se non ci riesci, chiama qualcuno che ci riesce. Se l’hai preso in prestito, restituiscilo. Se lo usi, abbine cura. Se fai casino, rimetti in ordine. Se lo sposti, rimettilo a posto. Se appartiene a qualcun altro, chiedigli il permesso di usarlo. Se non lo sai far funzionare, lascialo perdere. Se non ti riguarda, non t’impicciare”. Un mansionario di correttezza e rigore cui il “principale” è il primo ad attenersi.
Così Emilio, con sacrificio e fatica ma anche con immensa dedizione, diventa da semplice autista, il factotum indispensabile non più di Mr. Kubrick ma di Stanley, prima nella residenza di Abbots Mead, poi nella nuova principesca magione di Childwickbury, curando personalmente il complicato trasloco tra i due palazzi, l’adattamento degli ambienti e la nuova organizzazione degli spazi: non si occuperà più soltanto dell’autorimessa, di tutte le automobili e del ciclopico camion Unimog; ora solo lui ha le chiavi degli uffici privati, della camera da letto e della biblioteca di Stanley; solo lui ha il privilegio di occuparsi personalmente degli amatissimi animali della famiglia Kubrick, decine di gatti e cani, e perfino due asini; in breve si sarà guadagnato la fiducia assoluta e incondizionata di un uomo diffidente fino alla paranoia, esigente e perfezionista quanto mai ma anche generoso e schietto fino al candore infantile, come Stanley. A Emilio saranno affidati perfino i genitori del regista quando verranno a trovarlo dall’America (“trattali come fossero i tuoi genitori” – gli dirà).
È particolarmente affascinante osservare, attraverso gli occhi di Emilio, la costruzione di un film dall’esterno, dalla periferia: per esempio gli scenari estenuanti di Barry Lyndon, facendo quotidianamente la spola in auto e in traghetto fra le sterminate campagne irlandesi e i laboratori di stampa londinesi alla ricerca del giusto tono di colore, lo sviluppo ideale della pellicola che restituisca la luce naturale dell’illuminazione a candela. Dal film successivo Stanley, stanco di complicate location, non vorrà più muoversi dalla sua residenza, per tenere tutto ancora più sotto controllo: l’Overlook Hotel di Shining sarà ricostruito interamente in teatri di posa casalinghi seguendo con esattezza maniacale le foto di architetture e arredamenti di vari hotel statunitensi, mentre Stanley studia metro per metro gli effetti ottenibili in quegli spazi col suo nuovo balocco, la steadycam; la città vietnamita di Full Metal Jacket sarà una fabbrica abbandonata a pochi chilometri da Childwickbury; perfino la Manhattan di Eyes Wide Shut verrà interamente ricostruita, strada per strada, in studio e accreditata di ben due omaggi a Emilio, il Caffè “Da Emilio” che campeggia nella scena in cui Tom Cruise viene pedinato e il cameo di Emilio stesso che appare come edicolante al chiosco in cui Tom compra il giornale.
Oltre a tutti gli altri compiti – da dog and cat sitter, a confidencial counselor e problem solver in quasi tutte le questioni di quotidiana sopravvivenza – Emilio continuerà a essere per conto di Stanley lo chauffeur e l’accompagnatore di attori e personalità: da Nino Rota a Brian Aldiss, da Wendy Carlos a Charles Aznavour; farà amicizia con Ryan O’Neal e Marisa Berenson, con la quale può parlare anche in italiano; non legherà invece affatto con Jack Nicholson. In una buffa scena del documentario racconta di essersi lamentato con Kubrick delle frequenti sniffate di coca dell’attore in auto e del fatto che questi lo facesse accostare continuamente ogni volta che vedeva una bella ragazza per strada cercando di rimorchiarla, tanto che Kubrick lo dispenserà dallo sgradito compito. Ricorda invece con simpatia Lee Ermey, il sergente Hartman di Full Metal Jacket, che avrebbe dovuto da principio soltanto istruire un attore nel ruolo di addestratore di marines, ma chi può interpretare un sergente maggiore dei marines meglio di un vero sergente maggiore dei marines? Lee – testimonia Emilio – era in privato uomo di grande educazione e affabilità, ma capace, con somma gioia di Stanley, di improvvisare sul set sconcezze e oscenità ancora più esplosive di quelle richieste dal copione. Un ricordo affettuoso anche per Tom Cruise e Nicole Kidman, persone amichevoli e sensibili e grandi professionisti, Nicole – racconta commosso Emilio – si sentì male e quasi svenne al funerale di Stanley; Harvey Keitel invece alle prime riprese di Eyes Wide Shut, “mi diede l’impressione di qualcuno che non si divertiva un granché” – dice Emilio – infatti nel giro di cinque giorni di set litigò duramente con Kubrick e fu sostituito da Sydney Pollack.
Il rapporto fra Emilio e Stanley è davvero speciale. Stanley è un uomo profondamente amabile e alla mano – tutto il contrario dell’orco intrattabile inventato dalla stampa – ma anche, pur in modo gentile e impeccabile, un vampiro che succhia al suo factotum ogni minuto di tempo, attenzione, energia: non esistono orari, non esistono domeniche o feste comandate. Emilio sopporta, consapevole di contribuire all’opera di un genio, ma in famiglia moglie e figli sono esausti per la perpetua assenza dell’uomo di casa e, nei rari momenti di pausa, per le continue telefonate di Stanley, di giorno e di notte, spesso con richieste assurde: un gatto sta male, una chiave non si trova, bisogna passare dal Blockbuster per vedere come sono esposti i film, Stanley vuole telefonare a Fellini e ha bisogno di Emilio come interprete, ecc. ecc. Anche se Kubrick è capace di grandi gesti di affetto, premura e disponibilità, come dimostra durante i tristi momenti del terribile incidente automobilistico che quasi costa la vita a Jon il figlio maggiore di Emilio, o quando cerca con insistenza di dissuadere l’insostituibile tuttofare dal partecipare a una maratona di corsa perché teme che alla sua età non più giovanile e senza allenamento lo sforzo possa fargli male, alla lunga l’estenuazione prevale e anche il lavoratore più stakanovista ha bisogno di una pausa. L’episodio è ancora più divertente raccontato dalla viva voce di Emilio nel documentario: Stanley, dopo lunghe e sofferte esitazioni, gli concede finalmente un preavviso di… tre anni! Cerca poi di fare di tutto per trattenerlo, prima di convincerlo e di allettarlo, poi di ignorarlo, infine di impietosirlo. Kubrick ha bisogno di lui – ed è vero – non può essere abbandonato dall’unica persona capace di calmare le sue ansie, di rassicurarlo, di permettergli di dedicarsi solo al lavoro creativo risparmiandogli ogni altra preoccupazione. Alla fine Emilio è costretto quasi a scappare per tornare in Italia a godersi il meritato riposo. Ma non per molto.
Le telefonate di Stanley continuano regolari anche durante la permanenza di Emilio in Italia. Sono ormai le telefonate di due vecchi amici: “A poco a poco il suo tono di voce si rilassò e le telefonate diventarono piacevoli chiacchierate in cui ci raccontavamo le nostre giornate a distanza, io nella mia casa di Sant’Angelo e lui nel maniero di Childwickbury. ‘Non è così male come pensavo’ disse in una delle telefonate successive ‘possiamo restare in contatto facilmente, il telefono sembra funzionare bene’. Questo commento riuscì a sciogliere un po’ di rimorso che provavo nell’averlo lasciato lassù con due film in produzione”. I due film sono A.I. che resterà un progetto, poi girato da Steven Spielberg, e Eyes Wide Shut.
Emilio ha ora finalmente tempo per vedere tutti i film del suo amico e datore di lavoro, ne ha già visto ampi pezzi, sul set mentre venivano girati o in moviola durante il montaggio, ma mai uno intero dall’inizio alla fine: si rende conto finalmente della grandezza dell’opera che anche lui, nel suo piccolo, ha contribuito a far esistere. Quando Kubrick gli chiederà quale sia il suo preferito Emilio, uomo semplice e amante dei film western, non ha dubbi: “Spartacus!” risponde. Kubrick resta deluso: “Spartacus? Ma quello non è poi un granché…”. Nei mesi seguenti Marisa, la figlia minore di Emilio, annuncia di stare per avere un bambino e i genitori tornano ovviamente in Inghilterra a farle visita. Appena Emilio passerà a salutare Stanley, ecco che il vecchio marpione ci riprova: “Che ne dici di tornare a darmi una mano per il nuovo film che comincia in estate? […] Si chiama Eyes Wide Shut ora, ma…, si soffermò. Se non vieni… non so… forse ci ripenso. Potevo preferire un trattore all’incarico di un genio? Non l’avevo mai vista in questi termini. Fossi stato più intelligente me ne sarei reso conto prima. Se non vieni ci ripenso…”. Visto e preso.
Così il lavoro ricomincia come sempre, altri vecchi sodali di precedenti film si sono uniti alla troupe, è come una rimpatriata generale, ma nessuno immagina che sarà anche un addio. Emilio riceve da parte di Stanley gli omaggi filmati di cui abbiamo già detto e continua a farsi in quattro e forse anche in otto per il nuovo film. Solo quando si sta per girare la scena finale dell’orgia, intimidito si tira indietro: “Stanley, non so che cosa hai in mente di girare, ma io ne voglio stare fuori, […] ci saranno sexual activities nelle prossime scene… per piacere, cerca di non aver bisogno di me. […] Ecco, quando ci sono di mezzo queste cose, io finisco sempre per far ridere tutti, quindi per piacere, tienimi alla larga”.
Dopo la fine delle riprese il decadimento fisico di Stanley è purtroppo evidente: una sera Emilio deve perfino tirarlo su perché non riesce ad alzarsi dalla sedia e accompagnarlo per le scale fino in camera. “Stanley era sempre riuscito a riprendersi, mi ripetevo, l’avevo sempre visto rinascere e tornare a essere il combattente energico e vittorioso che conoscevo. Ce l’aveva sempre fatta. Occorreva solo un po’ di riposo”. Così si illude Emilio. Alla fine del week-end successivo, dopo un’insolitamente lunga pausa di silenzio, riceve finalmente una chiamata, ma non è Stanley. “Emilio, Stanley è morto”, gli dicono.
Nei commoventi capitoli finali, dopo la morte improvvisa di Stanley, Emilio rifletterà sul loro complesso e affettuoso rapporto: “Avevo l’impressione che se ne accorgesse, a volte, di quanto apparisse lontano, diverso rispetto agli altri. Io stesso l’avevo considerato così all’inizio, poi poco a poco ero arrivato a comprenderlo, a capire le sue intenzioni, finanche a giustificare e proteggere la sua natura. Ora che il suo tempo si era esaurito e il mio aveva perso ragione, mi sembrava di cogliere il filo che ci aveva legato, quel punto di impensato, eppure stabile equilibrio in cui la sua intelligenza e la mia ignoranza si erano toccate, in una unione che aveva funzionato in maniera semplice e sorprendente”.
La commozione continua a prevalere nelle parti dedicate al funerale di Stanley, alle visite di Emilio alla famiglia Kubrick, a Christiane, la moglie pittrice, alle figlie con i mariti o sulla sua tomba nell’immenso parco di Childwickbury. Nel film Emilio viene condotto, ormai molti anni dopo, alla vecchia residenza; scende dall’auto, ma non ce la fa ad entrare, resta di fronte al cancello a guardare in silenzio verso un punto lontano.
Nelle ultime pagine Emilio racconta di aver visitato al Palazzo delle Esposizioni a Roma, la grande mostra di oggetti kubrickiani del 2007/2008. “Vedere sotto vetro quegli oggetti che avevo spolverato ogni giorno, come fossero dei reperti storici, era surreale, quasi comico. […] Non ho resistito: tra gli obiettivi che tante volte ero andato a prendere a Friburgo, ho accarezzato il metallo dipinto di verde della moviola. ‘È vietato toccare,’ mi ha apostrofato la maschera, e quando le ho risposto di getto, ‘ma se l’avrò toccata milioni di volte!’, mi ha guardato come fossi pazzo. ‘Se solo sapesse quanta pipì di gatto ho tolto da lì sotto non ci starebbe poi così vicina!’”.
Il rapporto di Emilio con la sua collezione personale di cimeli kubrickiani è invece del tutto diverso e assai poco museale: il tappeto di Shining arreda il salotto di casa D’Alessandro, un paio di giacche da marines di Full Metal Jacket costituiscono il suo guardaroba da lavoro, il tavolino che sorreggeva le pistole da duello di Barry Lyndon campeggia in dispensa fra pomodori e verdure colte nell’orto. “Il fucile di Matthew Modine che regalai a Jon; la giacchetta di velluto rosso di Nicholson che non indossai mai nonostante la taglia fosse giusta; il cappello del sergente Hartman che avevo tenuto come ricordo di Lee Ermey. […] Li conservo usandoli”. Un abito di scena di Barry Lyndon viene persino donato alla Caritas di Cassino: “Adesso ci sarà un vagabondo che si veste come un ufficiale prussiano…”.
Solo un uomo straordinario come Emilio avrebbe potuto fronteggiare per decenni un artista straordinario come Kubrick… Testimonianze altrettanto straordinarie sono questo piccolo libro e questo piccolo film.
Emilio D’Alessandro e Filippo Ulivieri, Stanley Kubrick e me. Trent’anni accanto a lui. Rivelazioni e cronache inedite dell’assistente personale di un genio, Il Saggiatore, pp. 354, euro 17,00 stampa