La policromia di Budapest – scrisse Joseph Roth nel 1924 – è “più balcanica dei Balcani”. Definizione nient’affatto dispregiativa, questa, che se applicata alla storia e alla geografia dell’Ungheria intera (quella odierna e quella d’una volta), aiuta a leggere con maggiore consapevolezza, da una prospettiva più ampia e certamente più consona, i trenta racconti contenuti in questo libro frammentato e totalizzante insieme, di intelligente fattura, semplice e al contempo complesso, che comunque attrae, attira, avvince. Sino a consentire di comprendere meglio, dal punto di vista ungherese, una Europa centro-orientale che ancora indigna per la sua arretratezza materiale che stride violentemente – cosa denunciata più volte anche da Péter Esterházy – con il livello assai alto della sua cultura. Questo “piccolo” epos della incomunicabilità dell’essere umano intende porgere all’attenzione di tutti noi la variante contemporanea ungaro-balcanica di un tema che – tanto antico quanto attuale e sempre nuovo, e collocato, anzi esteso a Francia e Germania – ha sostanzialmente inizio e fine in Transilvania, nell’appendice territoriale e culturale cioè che forse è la più cara al sentimento ungherese e la meno disposta a sentirsi recisa dalla madrepatria d’una volta. L’umanità osservata e amata all’interno dell’agile groviglio narrativo si esprime in soliloqui, in pensieri repressi, in osservazioni confinate nell’io di ogni protagonista. Il lettore si compiace dell’andamento carsico delle trenta brevi ma intense vicende collegate da linee esistenziali a prima vista invisibili, ma concrete e sorprendenti nella concretezza del loro rincorrersi e dei loro incontri inattesi all’interno dell’intricato viluppo di situazioni.
La lettura diventa necessariamente attività investigativa, il coinvolgimento è totale, il lettore partecipa, si sente chiamato ad agire per fare ordine, anzi è interessato a smascherare tutto e tutti, vuole che i frammenti di racconto non siano veri, non accetta i possibili sviluppi della narrazione. Lo spazio geografico è (ancora una volta) quello dell’Europa centro-orientale, che la storia ha castigato tante volte. Ma adesso l’apocalisse e/o il demonio indossa un’uniforme diversa, quella delle guardie di confine posta a difesa di confini innaturali (il concetto deriva ancora da Joseph Roth) che ostacolano la circolazione di una umanità divenuta forzosamente tutta frontaliera – e di questo tema si fa portavoce anche qualche racconto la cui ironia può rivelarsi perfino esilarante.
Sono storie che inquietano perché entrano nell’animo umano, ne rivelano i piccoli grandi drammi dell’esistenza. È umanità problematica quella presentata dalla Tóth, cioè vera, autentica, intraprendente e indifesa assieme. Un’inquietudine innata, profonda spinge a cercare, curiosare in luoghi reconditi nella vana e immotivata speranza di trovare sé stessi. Il nomadismo caratteriale ungherese, infatti, riguarda anche la cultura, le altre culture e le culture altre. Il libro è ingegnoso, originale, realistico, crudo. È anche il libro dell’infedeltà, della morte, dell’eros senza amore, della solitudine disperante e rassegnata insieme.
Considero un vero e proprio dono la “storia del gluteo”, l’ultima, la trentesima, che si ricongiunge alla prima, la “storia della mano” che presentava in apertura – nella città di Cluj Napoca (la Kolozsvár degli ungheresi), per poi riproporlo anche nel capitolo decimo – il tema della sorte degli ungheresi fra Olocausto e “paradiso di Ceausescu”. Con un’esattezza toponomastica che non può non coinvolgere chiunque sia passato di lì, compreso l’estensore di queste righe, la scrittrice ci fa da guida – nei dintorni del già famoso Albergo Biasini che nell’Ottocento aveva ospitato anche Ferenc Liszt, Sándor Petőfi, Mór Jókai – lungo un itinerario romantico che conduce al cimitero monumentale di Házsongárd, autentico pantheon dei viri illustres della storia transilvana e che fu percorso nel 1936 anche da Jenő Dsida, il raffinato poeta che sulla via Republicii (la via Majális di allora) volle declamare il suo Psalmus Hungaricus alla giovane Rózsa Ignácz, la futura scrittrice. L’intrigo narrativo si scioglie e si risolve nell’incontro (fortuito?) di una bimba piena di vita con una tomba abbandonata: la vita continua, la mestizia è vinta dalla memoria, dalla presenza viva del ricordo. Nel ciclo vita-morte tutto si nobilita, le bassezze della vita si riscattano nella morte che tutto (com)prende e tutto (per)dona.
Quella di Krisztina Tóth è scrittura pensata, meditata, fors’anche sofferta; il suo sguardo (im)pietoso illumina una società lacera e lacerata, (rap)presentata nel più sagace neorealismo del XXI secolo. È un tragico, triste, ininterrotto indovinello” che la raffinata competenza della traduttrice aiuta a decifrare e a sciogliere.