Con i denti, di Kristen Arnett, è il racconto di una famiglia arcobaleno formata da Monika, Sammie e il figlio Samson, nato da Sammie. Samson è un ragazzo problematico, fin da bambino ha un atteggiamento aggressivo verso i coetanei mentre in famiglia è apatico e indolente. Le personalità delle due donne sono molto diverse tra loro: Monika è un avvocato in carriera che sembra mostrare poca attitudine alla genitorialità mentre Sammie, dipendente finanziariamente e psicologicamente dalla moglie, è casalinga e si mostra con maggiori debolezze e fragilità. È suo il punto di vista che, in terza persona, leggiamo nel romanzo, suoi i pensieri mentre ripercorre la relazione con la moglie: ne emerge una donna infelice, una persona che fatica a trovare la propria dimensione, la propria collocazione nel mondo. Monika d’altronde è spesso fuori casa per lavoro e quando vi si trova per le mani ha soltanto il cellulare, mentre Sammie, in contrapposizione, non si allontana quasi mai pur essendo travolta da insoddisfazione e sbandamenti, e insicurezze amplificate. Soltanto nell’alcol cerca un rifugio dove trovare l’annebbiamento di un perenne stato ansiogeno. La loro famiglia si trasforma in inferno privato, un vero garbuglio di situazioni borderline, dove trovano posto anche morsi fra Sammie e Samson, con tanto di cicatrici ben visibili. Il lettore si chiede che sia lecito, in nome dell’amore, marchiare con i denti il proprio figlio. La stramba intenzione di fagocitare (da qui il titolo del romanzo?) un figlio.
Arnett cerca di far luce sulla relazione di coppia, sull’ambigua comunicazione delle due donne che si riflette negativamente sull’educazione del figlio. Il “non detto” si consolida in punti di vista distorti da parte di tutti. E conseguenti muri insormontabili nelle conversazioni: Samson: “Perché, qui qualcuno mi ha mai incoraggiato? In questa casa a nessuno gliene frega un cazzo”. Le due donne hanno infatti tra loro una dinamica psicologica sconclusionata e perversa che si paleserà ancor più alla fine del romanzo quando (finalmente) i nodi verranno al pettine e si scoprirà che alcuni avvenimenti, che abbiamo creduto reali, forse non sono mai davvero accaduti (il tentativo di rapimento del piccolo Samson al parco con Sammie c’è mai stato?), e l’assurdità del dialogo emerge in tutta la sua drammatica deflagrazione.
Arnett non risparmia ai suoi lettori ironia e sarcasmo e, in modo disilluso e talvolta crudo, senza alcun pregiudizio ci racconta un rapporto di coppia queer che, nato da passione e amore travolgente, si logora anno dopo anno nella mancanza di dialogo e attenzioni reciproche. La fragilità di Sammie si rivela nell’incapacità di trovare vie alternative alla relazione con Monika che decide per entrambe i percorsi del matrimonio, e di raccontare la verità alla psicologa presso cui è in terapia.
“Era imbarazzante, si sentiva una lesbica fallita. Non riusciva a essere etero. Ma non riusciva nemmeno a essere gay. Non era una brava madre. Cos’era esattamente?”. Questa è Sammie, impietosa e realistica nel raccontarsi, senza maschere o filtri, come quando ci si osserva allo specchio e non ci si riconosce più, quando si iniziano a fare i conti di un’intera vita e ci si accorge che questi non tornano e qualcosa sfugge da sempre, quando arriviamo a intuire che solo strappando con i denti e lacerando dinamiche consolidate, anche e soprattutto con noi stessi, si possono trovare nuove risposte alla vita.