L’origine delle specie, raccolta di racconti di Kim Bo-young, è un bel tuffo nella letteratura coreana più contemporanea anche da parte di chi (come il sottoscritto) ne è piuttosto digiuno, ma proprio il genere fantascientifico può essere un’utile chiave di accesso all’immaginario degli scrittori dell’Asia orientale (si pensi anche al successo che sta avendo la sci-fi cinese). Il racconto che dà il nome alla raccolta ne definisce anche i toni e le aspirazioni di fondo. Il mondo dalle tinte post-apocalittiche de L’origine delle specie è popolato da robot, di modelli e caratteristiche diversi, che conducono una vita antropomorfa quasi indistinguibile da quella dei loro predecessori umani, tanto che i protagonisti del racconto cominciano a discutere temi filosofici ed esistenziali che appassionavano i loro antenati in carne ed ossa. Se il tema dell’androide che si pone domande sui sentimenti e sul senso della vita è stato ampiamente sviscerato dalla fantascienza degli ultimi quarant’anni, la particolarità dei robot di Kim Bo-young sta nell’interrogarsi proprio sul passato, sul dilemma tra creazione ed evoluzione della propria specie. E così, mentre nella società dei robot si riproducono ottusità e pregiudizi non diversi da quelli che portarono al rogo Giordano Bruno, l’attenzione dell’autore ai dettagli conduce il lettore in un esercizio di confronto con un’alterità estrema, dove per esempio la parola “aria” vuol dire “nulla” e dove sognare è considerato alla stregua di una superstizione o un delirio: “Un numero esorbitante di robot aveva provato quell’esperienza, eppure l’esistenza dei sogni non era stata ancora riconosciuta dalla comunità scientifica. Soltanto perché quelli che non avevano mai sognato non credevano fosse possibile”.
Brani come questo danno l’idea del costante oscillare tra finzione e allegoria, specie tenuto conto che la società robot non sembra poi così diversa (con le sue fantascientifiche estremizzazioni) rispetto a realtà più familiari guidate dalla ricerca del profitto: “Era comprensibile la ragione per cui i quattro cifre venissero disprezzati dalla società. Quale azienda avrebbe affidato un ruolo di rilievo a un robot che esternava ogni minimo sentimento?
Altri racconti della raccolta seguono un filone di indagine simile. Così in Scripter, ambientato in un mondo alla Westworld, l’umanità è disorientata da un rapporto sempre più indistinguibile con l’intelligenza artificiale e si domanda cosa separa ormai le due realtà… o “forme di esistenza”? E se è proprio il libero arbitrio, come può l’umano essere certo che quest’ultimo non faccia in realtà parte della sua programmazione, rendendolo così fasullo? Simili profondità si raggiungono nel lisergico Tra zero e uno, dove le persone sono costrette a continuare a osservare ad libitum un passato dal quale non riescono a uscire. Il tema del viaggio nel tempo è riadattato per riflettere i limiti della coscienza di chi, pur essendo progredito negli anni, è rimasto bloccato nella propria mentalità: ma chi viaggia nel tempo, pur privato dei ricordi di averlo fatto, vive fondamentali trasformazioni della propria identità: “Nessuno di loro, però, si era mai separato davvero dalla propria epoca”.
Altri racconti sono decisamente soft sci-fi, come Il mito dell’evoluzione, dove il corpo umano muta aspetto per effetto dell’ambiente circostante; L’ultimo lupo, riflessione sul rapporto con la vita animale (e interessante esperimento linguistico); e Le stelle, quasi fiabesco, in un mondo dove non esiste la notte. Anche per questi aspetti, L’origine della specie sollecita una riflessione su cosa sia la fantascienza a partire dalla pratica viva di chi la scrive e la immagina. Anche perché in tutte queste opere si scorge comunque un evidente filo rosso nell’attenzione alle sfide poste dall’evoluzione, intrecciando tecnologia, cultura, economia, società, politica e spiritualità. Guardare a sé stessi dalla distanza: è questa la funzione precipua della fantascienza?