Kentucky assoluto

Chris Offutt, Nelle terre di nessuno, minimum fax, tr. Roberto Serrai, pp. 156, euro 17,00 stampa, euro 8,99 ebook

Dal momento che, come ben si sa, fanno più notizia le stroncature, voglio cominciare con l’unica cosa che disapprovo di questo volumetto: ma perché tradurre Kentucky Straight, titolo originale, con questo scialbo Nelle terre di nessuno? A parte che si poteva lasciare com’era, tanto capita anche troppo spesso, ma “Kentucky liscio” non vi piaceva? “Puro Kentucky”? “Kentucky assoluto”? E sicuramente un traduttore bravo come Roberto Serrai (che non va biasimato per il titolo, per quello si bacchetta l’editore o l’editor o entrambi) avrebbe inventato pure qualcosa di meglio.

Vabbè, ho finito le munizioni, ho fatto vedere la bandiera, posso pure alzare le mani.

A parte un refuso in una pagina del racconto “Blue Lick” (uno dei nove che compongono questa snella raccolta, uscita negli Stati Uniti nel lontano 1992), a cosa si potrebbe attaccare il povero recensore in cerca di esposizione mediatica per alzare un polverone? I racconti sono belli; la traduzione smagliante; la grafica di minimum nettamente migliorata rispetto ai tempi in cui cominciai a seguire le loro uscite; pure i caratteri tipografici che usano sono migliorati; e nel complesso, la scoperta di questo narratore prossimo ai sessant’anni è pure un piccolo evento editoriale (forse neanche tanto piccolo).

Mi arrendo, spero che almeno mi si conceda l’onore delle armi.

E ora spieghiamo cosa comprate se acquisterete questo volumetto. Intanto le terre non sono di nessuno, proprio per niente. Siamo in un Kentucky selvaggio, povero, disperato, sfigato, ma tutt’altro che vuoto. Ci sono gli abitanti, prevalentemente appartenenti a quella categoria umana che in America si definisce white trash. Gente che vivacchia di un’agricoltura stentata o di sussistenza, che impara a sparare e fare a botte prima che a leggere e scrivere, che non si lava, che vive in catapecchie, che se ha aperto un libro sarà la Bibbia nella seicentesca traduzione disposta da Re Giacomo I Stuart (ecco cos’è la “King James” che ogni tanto spunta in qualche racconto…), e l’ha capita tutta a modo suo, che ai libri preferisce andare a caccia e a pesca, insomma, una comunità di autentici buzzurri arrivati lì tra Sette e Ottocento, e lì rimasti. (Ma, siccome nella sua evocazione poderosa degli “appalachiani”, Offutt spesso ti sorprende, in mezzo al white trash ci trovi anche quelli belli scuri: il quadro è assai variegato.)

A parte loro, c’è la fauna degli Appalachi, quella di un tempo sterminata a fucilate e quella tornata, come i coyote, che agli occhi dei kentuckiani sono animaletti inoffensivi. E poi ci sono i boschi che coprono le aspre colline e le montagne della zona. Insomma, la terra non è affatto di nessuno; sarà proprietà di una massa di mezzi selvaggi (che l’avranno strappata ai soliti nativi americani, tanto per cambiare), però qualcuno ci vive, anche se male, tra un poker che può finire in sparatoria o rissa, e il trasporto di una casa mobile che può risultare in una catastrofe su scala ridotta. (Proprio come puma e orsi, la geografia del territorio è ostile e rabbiosa.)

Pur non essendo ambientati formalmente nel west (il vero west inizia proprio dopo gli Appalachi, andando da oriente a occidente), in questi racconti dove ci si sposta sui pick-up e si chiamano i figli Elvis (indovinate perché?) si respira un’atmosfera da vero western. I personaggi fanno pensare a quei cowboy brutti sporchi e cattivi di Sergio Leone. Ma niente vacche sugli Appalachi; e soprattutto non c’è l’uomo senza nome o lo sceriffo a ristabilire la legge e l’ordine; si intuisce, leggendo, che questa umanità rurale e provinciale è sempre vissuta secondo le sue regole, distillando whisky di contrabbando, coltivando marijuana (come si vede in “Coda di cavallo”), sparandosi per un insulto, mandando a sfascio la propria casa e la propria famiglia come niente fosse (vedi per l’appunto “Blue Lick”), e strafregandosene del resto del mondo. Chi non s’adatta a questo andazzo taglia la corda, come la madre del narratore in “Blue Lick” (e non è l’unica, comprensibilmente…).

Occasionalmente può arrivare il momento del pentimento e della redenzione, in un attimo di illuminazione religiosa, di un fondamentalismo disceso dal puritanesimo secentesco, come capita al protagonista di “Luna calante”; ma non è detto che duri. Inoltre questo mondo di uomini incarogniti è popolato da donne altrettanto selvatiche e telluriche, come la Beth di “Zia Lith, l’ultima levatrice”: pronte a ricorrere a una magia che non si sa se importata dalle campagne inglesi o mutuata dalle tribù native; pronte anche a ricorrere alle mani per regolare i conti tra di loro. E, come si vede in “Palla 9”, la tesissima partita di biliardo che chiude la raccolta, ci sono forme di autodistruzione eminentemente femminili anche sugli Appalachi (ma poi viene da chiedersi se non sia anche quella una specie di fuga).

Per finire, un ultimo motivo per leggere questa raccolta di racconti, lettura che dovrebbero fare soprattutto gli pseudo-commentatori di fatti americani che dominano sui media italiani: fatta la conoscenza con l’umanità rozza e sgangherata di Offutt, può essere che vi spiegherete finalmente com’è che ha vinto Trump e non la candidata democratica che vi piaceva tanto. Mica è poco.

(P.S. Vi risparmio l’aritmetica: Chris Offutt esordì venticinque anni fa. In tutto questo tempo, a che cosa stava pensando l’editoria italiana? Non ci potevano arrivare prima? Ah, che domande, che domande… e dire che c’è pure un bel testo autobiografico gratuito per chi legge l’inglese, con tanto di foto diciamo allegorica dell’autore… )

15 Novembre 2017

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