«Mi sento pericoloso. Non so come dirlo in modo altrettanto sprezzante. Ma come può un iraniano essere pericoloso senza diventare “un pericoloso iraniano”? Senza diventare un pericolo per ogni altro iraniano nel mondo o senza contribuire al mito dell’iraniano patologicamente arrabbiato? Che nasce dal ventre con una bandiera in fiamme tra i denti?»
Così scrive Cyrus Shams protagonista di Martire! primo romanzo di Kaveh Akbar, autore che nasce come poeta e ha già pubblicato due raccolte di poesia molto lodate. Akbar presta al protagonista del suo romanzo molti tratti personali. Ambedue nati in Iran e immigrati negli Stati Uniti giovanissimi, ambedue hanno dovuto combattere un fortissima dipendenza alcolica e da altre sostanze, ambedue ne escono scrivendo. Martire! è il racconto della giovane vita di Cyrus Shams e del suo progetto di scrittura raccolto nel file LIBRODEIMARTIRI.docx che intervalla i capitoli del romanzo con appunti, poesie, riflessioni, citazioni.
La vita di Cyrus Shams, dunque. Il 3 luglio 1988 un aereo civile iraniano venne colpito da due missili terra-aria lanciati da una nave della Marina americana. Tutti i 290 passeggeri a bordo, fra i quali anche la madre di Cyrus vengono ridotti in cenere. Gli Stati Uniti riconosceranno un indennizzo alle vittime ma considereranno sempre il terribile incidente come un semplice effetto collaterale di una guerra non apertamente dichiarata con l’Iran khomeinista. Cyrus, a pochi mesi, rimane orfano e di lì a poco emigrerà con il padre negli Stati Uniti. Una vita faticosa e incerta dove il padre per lunghi anni farà l’operaio in un allevamento di polli alzandosi ogni mattina alle quattro e mezza fino a quando Cyrus, brillante studente, vincerà una borsa di studio ed entrerà al college: allora il genitore morirà improvvisamente quasi avesse portato a termine il proprio compito paterno. Da parte sua Cyrus comincerà immediatamente a bere e a drogarsi con qualsiasi sostanza rischiando più volte di morire. Qualche capitolo di Martire! molto divertente e matto – come tante delle storie improbabili che anche nella realtà riguardano i tossico dipendenti – descrive la vita pazzesca di Cyrus e del suo compagno Zee, che per sopravvivere e pagarsi la droga vengono assunti da uno scialbo personaggio vestito solo di un paio di mutande bracalone e giallicce che li paga per guardarli mentre sudano facendo lavori inutili nel suo giardino. Anche l’altro lavoro di Cyrus è come minimo insolito: in una clinica ospedaliera interpreta la figura di un paziente al quale di volta in volta medici dottorandi si esercitano a trasmettere diagnosi fatali e mortifere.
Dolorosamente orfano, drogato, con un vuoto interiore che sembra incolmabile Cyrus, ossessionato dalla morte e dal suo significato, in un certo senso conduce anche una vita da “martire”. Ma chi sono i martiri? Quelli che sono costretti a diventarlo? In Iran durante la guerra «i soldati si presentavano senza annunciarsi alle porte delle donne anziane, dicendo “Congratulazioni, i vostri figli sono diventati martiri”. Le madri dovevano trattenere le lacrime, serrando le labbra in inquietanti sorrisi ammaccati che passavano il resto della vita a perfezionare. Erano le fortunate. A piazza della Rivoluzione a Teheran, i figli di altre madri pendevano dalle gru».
Oppure i martiri sono per l’appunto gli impiccati in piazza della Rivoluzione? Sono Giovanna D’Arco bruciata sul rogo o l’irlandese Bobby Sands e il rivoluzionario indiano Bhagat Singh, indipendentisti morti ambedue per il rifiuto di cibarsi in una forma estrema di lotta? Domande che Cyrus si fa senza riuscire da darsi una risposta. La svolta nella vita di Cyrus avviene quando incontra Orkideh, una famosa artista visuale iraniana di fama internazionale, malata terminale di cancro, che a New York decide di fare la sua ultima performance, MORTE-PARLA, seduta in una stanza di una galleria d’arte contemporanea. Chiunque può andare a visitarla e parlare con lei. Cyrus è uno di questi e quando le confessa di voler scrivere qualcosa di epico: «Qualcosa che parli dei martiri secolari, pacifisti. Gente che ha dato la vita per qualcosa più grande di sé. Senza brandire spade» lei lo rintuzza bonariamente ma ferma dicendogli che è l’arte ciò che il tempo non deteriora e fa morire: questo è quello che lei ha sempre fatto: «Offro la mia vita all’arte perché l’arte resta. Questo è ciò che sono. Un’artista. Io faccio arte». Invece la morte banalmente succede e Cyrus conclude che forse il peccato più grave del martirio è l’arroganza, l’orgoglio, la vanità di pensare che la tua morte possa avere un significato superiore alla tua vita o alla morte stessa, che, essendo appunto inevitabile, non possiede alcun senso intrinseco.
Mi rendo conto che contraddire la “BBC”, “Times” e “Il Guardian” che hanno proclamato Martire! fra i dieci migliori libri dell’anno 2024 sia arduo e forse sfacciato, eppure si esce dalla lettura del romanzo un po’ saturi, ripieni per l’appunto come fossimo entrati in un luccicante supermercato e assaggiato tutti i cibi uscendone un po’ satolli. Non manca nulla, la cultura pop up to date americana da Lisa Simpson che appare nei sogni di Cyrus, a DFW, la mamma omosessuale e il figlio, Cyrus, dall’identità fluida come oggi conviene… Anche dal lato iraniano ci sono tutte le citazioni e gli autori che ci si può divertire a riconoscere immediatamente o andare a googlare: a cominciare dai poeti Ferdousi e Rumi…
Kaveh e con lui il suo protagonista Cyrus sono decisamente molto bravi ma sotto le loro brillanti perfomance stilistiche e narrative sono un po’ freddi e distaccati, qualche volta anche banali e frettolosi negli sviluppi e colpi di scena del romanzo. In ogni caso di tutte le invenzioni di cui è ripieno Martire! la più suggestiva e che vale la lettura del romanzo è quella che riguarda lo zio di Cyrus traumatizzato di guerra. Il padre di Cyrus racconta al figlio che lo zio durante la lunghissima guerra fra Iran e Iraq fra il 1980 e il 1989 era un “angelo”. La notte cavalcava un cavallo nero e vestito tutto di nero con un cappuccio nero, avvolto in un mantello nero con una torcia fissata sotto il mento che gli illuminava il volto in modo spettrale passava fra le trincee per «ispirare gli uomini agonizzanti a morire con dignità, con convincimento. Impedire loro di suicidarsi». Un vero e proprio angelo della morte garante del martirio. L’ultima cosa che vedevano migliaia di iraniani morenti.
Questa invenzione letteraria che anche l’artista Orkideh ha rappresentato in uno quadro esposto dove fa la sua ultima installazione artistica, è così potente che forse non se l’è inventata Kaveh Akbar. O almeno così è portato a pensare il lettore: forse è nata nelle trincee iraniane, forse è una cosa vera perché è troppo perfettamente significativa. ChatGPT interrogata a proposito sembra confermare la leggenda ma non ne è del tutto certa.