Katiuscia Magliarisi / Cinema di genere, cinema di culto

Katiuscia Magliarisi, Il ruggito della strada. Storie di cinema poliziottesco e della mia mala famiglia, Edizioni Milieu, pp. 192, euro16,50 stampa

Poliziottesco lo chiamavano con evidente disprezzo i critici dell’epoca, tacciando il genere di superficialità sociologica e tendenze ideologiche reazionarie e fascistoidi. Invece il poliziesco all’italiana, un po’ come il western all’italiana – di cui eredita le fortune di pubblico, la fecondità produttiva e, in parte, i protagonisti e gli autori – è uno dei nostri maggiori contributi al cinema-cinema (non cinema-letteratura o cinema-poesia in cui indulgono i cineasti paludati, quelli con la maiuscola, ma cinema-cinema: azione, movimento, ritmo. Roba da mestieranti, un mestiere che non a caso è il costante nutrimento del vampirismo cinefilo di Tarantino, il mestierante più bravo o forse solo il più fortunato). Un brillante innesto – analogo a quello tra western statunitense e rusticanesimo verghiano che originò lo spaghetti western – tra cinema “politico” alla Rosi o Damiani e action americano alla Siegel o Friedkin, crea un nuovo genere, anzi il nuovo genere, che accompagnerà il cinema italiano verso il suo malinconico crepuscolo ma che contemporaneamente ne decreterà la rinascita televisiva in tante produzioni di successo da La piovra (1984-2001) a Gomorra (2014-2021).

Katiuscia Magliarisi, con un piglio risoluto in stabile equilibrio fra il sarcasmo e l’elegia, ripercorre la storia del genere, in parallelo con quella del paese che lo inventa, un’Italia emersa dalle secche del dopoguerra, traghettata dal piano Marshall lungo le ipocrisie clericali e democristiane, passata oltre il boom economico e la successiva crisi, e approdata attraverso la strategia della tensione all’instabilità permanente degli anni di piombo: la repressione e l’eroina riportano l’ordine – il riflusso nel privato – trionferà la Pax berlusconiana, l’agenda della P2 e l’imbarbarimento destrorso. A quel punto l’encefalogramma del paese è piatto: l’Italia è un residuo marginale in politica, economia, arte; in tutto. Così anche il cinema e, con lui, ogni forma creativa degna di questo nome diventa fantasma, ectoplasma: ci teniamo i miti del passato e i monumenti del presente. Baricco e Sorrentino, esempi fra i molti dell’intellettualità contemporanea, non sono che le icone di un mondo di scatole vuote ben impacchettate e infiocchettate, un vuoto che ci conferma il comune degrado antropologico. Teniamoci stretto il nostro nulla scivolando verso ulteriori catastrofi, We are the dead, diceva Orwell.

Ma Katiuscia – nomen omen: quello di un mitra – non ci parla solo di cinema e di storia (e di costume, e di cronaca), ma unisce alla narrazione collettiva anche quella personale e, racconto nel racconto, ripercorre la sua infanzia in una famiglia legata alla mala milanese: un mondo di rapine e bische, di spari e regolamenti di conti, di guardie e ladri, di latitanze e di gabbio. Il mondo del poliziottesco visto fuori dello schermo. Rievoca (non sappiamo quanto la sua rievocazione di bambina sia veridica e quanto romanzata, ma che importa?) in particolare la figura di uno zio, affettuoso e implacabile, uno di quei boss dei tempi andati in cui gli uomini – con tutti i loro errori e le loro contraddizioni – erano, anche nel crimine, ancora uomini, con un’etica, una responsabilità e dei principi più vicini agli ideali – discutibili ma sempre ideali – dell’illegalismo anarchico che alla rapacità sfrenata e legalizzata del capitalismo.

Alternando con spigliatezza e humor la memoria autobiografica, alla cronistoria giornalistica, e alla disamina critica sul genere, l’autrice ci fa scorrere sotto gli occhi, in veloce carrellata, i protagonisti della cronaca nera di quegli anni – la banda Cavallero, la banda Vallanzasca, lo sbirro motorizzato Spatafora, ecc. – e in parallelo quelli dei principali film del genere – Enrico Maria Salerno, Gian Maria Volontè, Franco Nero, Fabio Testi, Mario Adorf, Gastone Moschin, Tomàs Milian, Luc Merenda, Maurizio Merli – un genere che prende corpo nelle opere non ancora inquadrabili dei capostipiti – Pietro Germi, Carlo Lizzani, Damiano Damiani, Elio Petri, con Un maledetto imbroglio (1959), Banditi a Milano (1968), Il giorno della civetta (1968), Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) – e linfa dai modelli statunitensi – Bullitt di Peter Yates (1968), Il braccio violento della legge di William Friedkin (1971), Ispettore Callaghan il caso Scorpio è tuo! di Don Siegel (1971) – per definirsi finalmente in titoli come Milano calibro 9 di Fernando di Leo (1972), La polizia ringrazia di Stefano Vanzina (1972), Revolver di Sergio Sollima (1973), Il cittadino si ribella di Enzo G. Castellari (1974), Milano odia: la polizia non può sparare di Umberto Lenzi (1974) e così via.

Le topografie delle città italiane diventano sanguinosi scenari di sparatorie e inseguimenti: Milano sopra ogni altra, ma anche Roma – un titolo per tutti Roma violenta di Franco Martinelli (1975) – Genova – ancora un titolo per tutti Genova a mano armata di Mario Lanfranchi (1976) – Napoli – Napoli violenta di Umberto Lenzi (1976) – Bari – La legge violenta della squadra anticrimine di Stelvio Massi (1976) – Torino – Torino violenta di Carlo Ausino (1977), e non finisce certo qui.

Come già avvenuto per lo spaghetti western, anche il poliziottesco alle soglie della crisi degli anni ’80, si ibrida con altri generi come lo splatter Luca il contrabbandiere di Lucio Fulci (1980) – e soprattutto la commedia: il Gobbo di Milian cede il passo al suo trucido gemello, Er Monnezza. Così il genere sopravvive ancora per un po’, ma gradualmente – not with a bang but a whimper, come diceva T. S. Eliot – si spegne, e si spegne anche il cinema italiano.

Katiuscia non trascura di considerare gli episodici esempi che ancora, nel cinema successivo e contemporaneo, continuano a dare lustro alla nobile tradizione poliziottesca, ispirandosi a fatti di cronaca – il capolavoro del compianto Claudio Caligari, L’odore della notte (1998) – o rifacendosi ai migliori esempi di neo-noir letterario come Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo, sulla banda della Magliana – Romanzo criminale (2005) di Michele Placido che darà adito ad una forse addirittura migliore serie televisiva omonima, Romanzo criminale – La serie (2008-2010) diretta da Stefano Sollima. È infatti sugli schermi televisivi che il genere ancora prospera – pur insidiato dai giallettini perbenisti a base di preti e suore detective e da un’infinità di brigadieri di provincia dell’Arma – e il volume ne fa risalire l’origine hard-boiled sui palinsesti tv addirittura al Tenente Sheridan (1959-1972) con Ubaldo Lay e al Commissario De Vincenzi (1974-1977) con Paolo Stoppa.

Non manca in chiusura anche un’esauriente filmografia cinematografica e televisiva e addirittura una discografia essenziale che comprende canzoni e singoli brani o parti di colonne sonore complete, spaziando da Ennio Morricone a Riz Ortolani, da Stelvio Cipriani a Luis Bacalov, da Guido e Maurizio De Angelis a Pivio e Aldo De Scalzi. Ovviamente nel finale Katiuscia ci informa anche sugli ultimi esiti dello zio bandito e della sua mala famiglia e un po’ di commozione non può non trapelare anche oltre lo schermo impenetrabile della tough girl.