Parte da un’inversione prospettica l’ultimo libro di Katja Petrowskaja, scrittrice ucraina di lingua tedesca già acclamata autrice di Forse Esther, toccante immersione in un’Europa ormai scomparsa, devastata dal Secondo conflitto mondiale. In La foto mi guardava il consueto rapporto fra l’autore e il fruitore dell’opera d’arte viene ribaltato. Le immagini emergono da un passato sconosciuto e guardano nel nostro presente sconvolto; il peso di dolorosi ricordi e l’attesa di un futuro ignoto colmano di senso lo spazio fotografico, ponendoci interrogativi ai quali non sappiamo rispondere. Il libro origina dal lavoro svolto per la “Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung” e raccoglie articoli usciti dal 2015 al 2021 come commenti a immagini eterogenee, significative per comprendere il nostro tempo. La scelta è a volte inaspettata, e sembra originare da quelle casualità che dirigono le nostre esistenze in maniera incomprensibile.
Frammenti di un passato obliato emergono da una valigia colma di negativi, provocando una struggente nostalgia che non si sapeva di possedere. In altre occasioni è la vetrina di una galleria berlinese a fornire l’ispirazione. In altre ancora un’immagine si mostra da un manifesto, e ancora ritorna in un’esposizione, come un vecchio amico che fa piacere incontrare dopo una lunga assenza. La trama delle suggestioni è fitta e colma di significato. Un uomo su una spiaggia guarda il Mar Caspio, dove corre un confine impalpabile e oggetto di controversia fra diversi Paesi. Egli stesso, inquadrato attraverso lo scheletro di una tenda, propone riflessioni sulle barriere che tormentano il nostro mondo. Una babuška fotografata su una seggiovia sembra sospesa nel cielo, come nei quadri ammantati di fiaba di Chagall. Un uomo in piedi di fronte a un portone in fiamme, un’immagine di potenza dantesca, è in realtà un artista che, dando fuoco all’ingresso della Lubjanka, opera una performance estetica e al contempo un atto di ribellione contro tutti i regimi.
Il gioco fra chi guarda e chi viene osservato rivela complessi risvolti sociologici e culturali. Una donna fotografa immigrati turchi e arabi in locali riservati agli uomini attraverso il vetro. I loro volti indecifrabili e fantasmatici parlano dell’estraneità, dell’impermeabilità di realtà diverse; la foto diviene metafora potente degli abissi che separano gli esseri umani. Riflessioni profonde sulla natura del tempo percorrono il testo, ad esempio nei flip books, libri da sfogliare composti da una serie di immagini in cui la sequenza assume ogni volta ritmi e durate diverse. Relitti di macchine avveniristiche colti in paesaggi innevati, come sospesi in uno spazio vuoto, ricordano che la corsa verso un progresso incontrollato può tramutarsi in una regressione fulminea all’età della pietra. Il dissidio fra uomo e natura trova significativa declinazione. Uomini dimorano nella foresta mentre macchine disumane cercano di distruggere il loro paradiso. Non mancano gli spazi intimi, quotidiani, sempre screziati da una vena di inquietudine. Magiche alchimie in grado di evocare immagini sepolte dentro di noi. La foto come simbolo del transitorio, misterioso istante ritagliato nel fluire del tempo. Così due bambini guardano stupiti al di fuori dello spazio inquadrato, lasciandoci soli con un enigma che non saremo mai in grado di risolvere. La repressione della primavera di Praga, presente non solo negli scatti iconici di Koudelka, trova vasta eco nella storia contemporanea e passata; “per la vostra e la nostra libertà” è un imperativo morale che accomuna le rivolte ottocentesche dei polacchi contro l’impero russo e le voci di dissenso, per la verità sempre più labili, degli attuali oppositori al regime putiniano.
Il minatore del Donbass con cui si apre il libro non solo fornisce suggestioni sulla tragedia che si sta svolgendo in quelle terre, ma sembra interrogare lo spettatore, ponendogli quesiti intollerabili. Una rivoluzione dello sguardo, come quella filmica proposta da Cronenberg in Videodrome. In quest’ottica la foto trascende il suo essere pura immagine facendosi carne e tempo, scuote lo spettatore dal suo torpore, immergendolo in un dedalo inestricabile. Un gioco di specchi, riflessi e tangenze, un labirinto di parole e immagini di enorme suggestione e forza evocativa. Un libro “stretto nella morsa della guerra”, secondo le parole di Petrowkaja, la quale vive in prima persona le lacerazioni di un conflitto assurdo. La brutale aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina stravolge i luoghi della sua infanzia, scompagina ricordi e certezze. Questa raccolta di frammenti è dunque anche un grido di dolore che l’autrice vuole opporre a una guerra tanto crudele quanto insensata.