Il 9 gennaio 1923 moriva a Fontainebleau, a 34 anni, stroncata da un’implacabile tubercolosi, la sola scrittrice di cui Virginia Woolf, che le fu amica, si disse “invidiosa”, per il suo stile moderno e raffinato. La ristampa in un unico volume di tutti i suoi racconti nella corposa edizione Adelphi, secondo l’ordine seriale stabilito dal marito, scrittore e curatore John Middlenton Murry, che si occupò dell’opera della moglie dopo la sua morte, è dunque un’occasione da non perdere per avvicinarsi in modo organico a questa scrittrice dalla “vita ardente”, come recita il titolo del bel saggio di Nadia Fusini recentemente edito da Feltrinelli: La figlia del sole. Vita ardente di Katherine Mansfield.
Il volume si presta in effetti a molteplici approcci, che restituiscono nella sua complessità il fascino sottile e multiforme della scrittura di Mansfield: che si opti per una lettura “canonica”, partendo dall’interessante prefazione di Lucia Drudi Demby, e si prosegua nelle quattro parti di cui si compone il volume – ciascuna corredata da una sentita quanto puntuale presentazione di Middleton Murry –, oppure che si scelga di appoggiare il libro sul comodino e di aprirlo a caso, tuffandosi in uno degli oltre ottanta racconti (compresi gli incompiuti) che costituiscono quest’universo dai contorni tanto familiari quanto capaci di inabissarsi in inaspettate profondità, quello che ci attende è lo stupore, la sorpresa della limpidezza stilistica che si unisce con grazia al quotidiano, ammantandolo di una dignità che sfocia nella poesia, senza che mai il sentimentalismo prenda il sopravvento.
Nel mondo di Mansfield, tutto è già accaduto oppure sta per accadere, e gli specchi, immancabili, sono i depositari di un presente fuggevole e forse distorto, dove ciò che è potrebbe benissimo non essere, perché altro non è che il frutto di una ben consapevole e personalissima percezione. Gli ampi spazi aperti della sua terra natale, la Nuova Zelanda, offrono alla scrittrice lo sfondo unico, incontro di lussuria e provincialismo, magia e desolazione, che sembra animare lo stesso spirito delle sue protagoniste, sempre in precario equilibrio tra frivolezza e profondità, adesione alle convenzioni e voglia di ribellione.
Se è vero che i racconti di Mansfield si prestano a una lettura irregolare, anche perché la loro brevità e il senso di sospensione che li accomuna fungono da ulteriori catalizzatori dell’attenzione del lettore, è tuttavia affascinante ripercorrere nel presente volume una seriazione che non è solo il frutto di un lavoro di archiviazione fedele e sensato, ma che ha il sapore del vissuto che si intreccia all’opera, che appare in questo modo ancor più luminosa nella sua interezza. Così, ad accoglierci nella nuova casa di campagna all’inizio della raccolta, troveremo Beryl Fairfield, una delle “tante minute, comuni, poco chiassose creature” – come le definisce Drudi Demby – che popolano non solo la dimora in cui si svolge il Prelude che apre Felicità (il primo dei quattro libri del volume) ma anche l’intero universo di Mansfield, che racconta un mondo in cui le donne risplendono della luce della loro giovinezza, dei loro amori e degli sguardi che il mondo maschile posa su di loro, ma non sapendo (non credendo?) di poter brillare di luce propria accolgono con riluttanza l’ombra che si staglia nelle loro vite, cercano di accantonarla, di schivarla, ma non possono fare a meno di riconoscerla, e di riconoscere in essa la loro essenza più profonda. L’amore, coniugale o materno, si staglia imponente all’orizzonte come un imperativo assoluto senza il quale non sembra possibile esistere, e nella quotidianità raccontata da Mansfield si concretizza nel guazzabuglio di sentimenti contrastanti, di verità e bugie che rendono intensa e al contempo ridicola la vita. Scrive Mansfield, sempre in Prelude: “C’erano tutti i suoi bei sentimenti per lui, forti e ben definiti, l’uno più autentico dell’altro. E poi c’era quest’altro, l’odio, non meno reale dei primi. Avrebbe potuto chiudere i suoi sentimenti in tanti pacchettini e darli a Stanley. Aveva una gran voglia di dargli anche quell’ultimo, come una sorpresa […] Com’era assurda la vita – ridicola, semplicemente ridicola. E perché mai quella sua mania di restare viva? Era davvero una mania, pensò, ridendo e prendendosi in giro.” E in queste parole di Linda, distesa a letto accanto al marito raggiante di gioia per le nuove imprese che lo attendono e di cui lui sarà il protagonista privo di dubbi, non si può che scorgere tutta la sconvolgente modernità – l’asciuttezza e la precisione dello stile unita alla dimensione sentimentale più intima – con cui l’autrice ci narra una storia qualunque, una storia di tante, una storia unica.