Il signor Field – il signor “Campo” – è un pianista. A causa di un incidente in treno la sua mano sinistra diventa rigida e il trauma lo manda “fuori campo”.
“Quante volte ho pensato che in una città non si ha il senso della prospettiva, e senza il senso della prospettiva non si ha lo spazio per pensare?”
Con questa saggezza Field abbandona Londra e compra – senza averci prima messo piede – una casa in Sudafrica. È una copia di Villa Savoye di Le Corbusier, che acquista con i soldi del risarcimento da Hannah Kallenbach. La signora è la vedova dell’architetto che l’ha fatta edificare sulla scogliera, chiamandola “Casa per lo Studio dell’Acqua”. Ma non è saggezza quella di Field. Piuttosto furia, che gli fa spostare i suoi campi vitali con un colpo di spugna. L’incidente lo ha sconvolto e lui si tuffa in un mondo nuovo, dove incontrerà sconnessioni multiple e articolate. In esergo, due frasi emblematiche.
“Una casa è una risposta tridimensionale alla domanda su come qualcuno possa essere con qualcun altro e qualcos’altro all’interno di qualcosa”. (Peter Sloterdijk)
“Ogni società si aspetta che l’architettura rifletta i suoi ideali e plachi la sue paure più profonde”. (Bernard Tschumi).
Field entra in un vortice di ossessioni, perché “lo spazio per pensare” e le “paure più profonde” diventano enormi. L’acqua è uno dei mostri che lo perseguiterà, in vari modi.
Acqua vede dalle finestre rettangolari, che fanno apparire le barche “navigare per il giardino”.
Dell’acqua scrive sua moglie in un diario segreto, esprimendosi con stereotipi per lui insopportabili quanto misteriosi. “La goccia d’acqua” è il nome dato a un preludio di Chopin che Field suona in continuazione (il cui primo tema – errore della scrittrice – non è in tonalità minore).
A tutto quello che gli capita sotto i sensi Field reagisce con misurata nevrosi e smisurata confusione. Elabora parabole del suo flusso di coscienza – e incoscienza – piene di acute contraddizioni, mostrandosi nudo e arguto nella sua asfissiante inconcludenza.
Il suo corpo musicale, il suo rapporto col tempo, è distrutto. Quale tempo?
Risponde Igor Stravinsky: “Il fenomeno della musica ci è dato al solo scopo di stabilire un odine, e soprattutto un ordine tra l’uomo e il tempo. Per essere realizzato esso esige pertanto necessariamente e unicamente una costruzione. Fatta la costruzione, raggiunto l’ordine, tutto è detto”.
Field si è profondamente disordinato. L’insolita struttura dello spazio in cui vive lo sfinisce per il continuo sforzo di adattamento, ma anche lo distrae. Field dorme quasi sempre, e quando non dorme analizza con l’orecchio del professionista “l’orchestrazione assolutamente imprevedibile di tonfi” della ristrutturazione di una casa vicina.
Ma c’è una linea ininterrotta, un punto fermo nel maremoto interiore del protagonista: il dialogo – tra Field e Field – con un alter ego che lo punzecchia e lo rassicura nel suo delirio: la signora Kallenbach.
La signora Kallenbach svolge il freudiano gioco del rocchetto. Field la evoca e la fa sparire, incessantemente, fino a quando da simbolico il gioco diventa reale: entra nel suo giardino di nascosto e la spia. Questa maniacale assurdità diventa un appuntamento quotidiano. Le sue giornate sono di piombo.
Lui desidera fare qualcosa, e si ingegna. Ispeziona le stranezze del solarium, cataloga i rumori dei muratori e quelli della sua personalità ferita, svita i bulloni che bloccano i vetri delle finestre.
Certo i vetri cadranno, lo lasceranno scoperto, eliminando “l’impressione… che essere all’interno significasse essere separati dal mondo esterno; e così l’esperienza della pioggia, vissuta dall’interno era distaccata. Potevo restarmene lì a guardarla come se fosse un film sulla pioggia”.
C’è l’incontro con un cane, che Field si porta a casa, ma è un ennesimo rispecchiamento di rapporto strampalato e sfuggente.
“Una casa è una macchina per vivere insieme, perciò le nostre case dovrebbero essere più piccole per avvicinarci di più.” Una frase carica di significato, anche se si vive da soli. Se tutte le parti di te sono vicine, potresti vivere felice.
Scrittrice sudafricana che ha studiato in Inghilterra, Katharina Kilalea è al suo primo romanzo, che raccoglie importanti consensi. Il gioco di architettura tra le persone e gli ambienti, tra le zavorre della mente e la mancanza di strutture portanti della casa, crea un vortice ordinato, raffinatamente astruso e possibile.
Un umorismo gentile e geniale è nascosto tra le parole, che si accusano e si sdrammatizzano tra loro, come fossero governatori autonomi. Dall’alto osservano la narrazione, elargendo la loro benedizione.