I personaggi del romanzo di Karine Tuil, da cui il regista Yvan Attal ha tratto l’omonimo film con Charlotte Gainsbourg, Matthieu Kassovitz e Pierre Arditi, presentato alla settantottesima Mostra del Cinema di Venezia, hanno vite di successo, professioni intellettualmente stimolanti, fitti legami sociali che intrecciano amicizia e potere. Eppure, Le cose umane è un romanzo sulla solitudine: la solitudine dei figli, la solitudine dei genitori, la solitudine degli amanti, la solitudine delle vittime, la solitudine dei colpevoli.
Nella Parigi “bene” dei salotti culturali, un’accusa di stupro dissesta la vita dei Farel coinvolgendo a livello personale e mediatico Jean, rispettato giornalista politico che conduce uno storico e influente programma televisivo, la giovane moglie Claire, impegnata studiosa e saggista nota per le sue posizioni femministe, e il figlio Alexandre, studente modello all’Università di Stanford. Attraverso un’implacabile tensione narrativa capace di tenere il lettore incollato dalla prima all’ultima pagina, assistiamo impotenti allo sgretolarsi, pezzo dopo pezzo, con dolore e senza sconti, di un mondo all’apparenza invidiabile, che cela tuttavia un nucleo vuoto, un’assenza strutturale che, una volta crollate le pareti scintillanti della facciata, apparirà in tutta la sua nuda violenza.
Un vuoto che i personaggi, ognuno a modo proprio – chi con l’abbandono ai sentimenti, chi con il desiderio di possesso, chi con la voglia di crearsi uno specchio che rimandi un’immagine migliore, o quantomeno ringiovanita, di sé – cercano inevitabilmente di colmare attraverso il sesso. Un rimedio che tuttavia potrà rivelarsi, nella migliore delle ipotesi, illusorio, se non fatale. Nel sesso e nelle relazioni di forza che esso genera vediamo riversarsi tutta l’imprevedibilità della vita, in una sorta di trance emozionale che conduce i protagonisti ad accettare con ostinata rassegnazione ciò che in altri ambiti tentano in tutti i modi di controllare: dall’inesorabile scorrere del tempo alla coerenza intellettuale. Affidando alla sfera sessuale il compito di convogliare tutta l’ineluttabilità del destino umano, essa assurge a un ruolo quasi catartico. Finché non porta alla rovina. Una rovina che si abbatterà sui protagonisti nell’intimità come nei fatti di cronaca: le vicende narrate si svolgono infatti all’indomani del Capodanno 2015, quando a Colonia centinaia di donne avevano denunciato molestie sessuali da parte di immigrati, suscitando un acceso dibattito sulla politica inclusiva di Angela Merkel. A tal proposito, Claire difenderà posizioni che le attireranno le ire e le critiche dei social, e su cui lei stessa sarà chiamata a riflettere: “aveva scoperto il divario tra i discorsi impegnati, umanitaristi, e la materialità dell’esistenza, l’impossibile applicazione delle idee più nobili quando gli interessi personali in gioco annientavano ogni lucidità e monopolizzavano tutte le componenti della vita”.
Nell’implacabile e vorticoso succedersi di pubblico e privato, di azioni impulsive e di meditate vendette, di leggerezza e crudeltà, risiede il fascino di un romanzo che fotografa con spietatezza clinica e ritmo crescente la fragilità dell’uomo contemporaneo e dei costrutti imposti dalla società. Il declino, del corpo e della morale, appare come l’unica conclusione possibile di vite in balìa di appigli superficiali, come l’opinione altrui, o di pulsioni negate che nessuna costrizione apparentemente razionale riuscirà a domare. Eppure, non c’è ombra di giudizio nella scrittura di Tuil, ci sono solo l’infinita complessità, le molteplici sfumature, gli innumerevoli sguardi, le numerose menzogne e le altrettante verità che costituiscono “le cose umane”, da cui non abbiamo scampo.