Complessità di un’edizione: l’opera – Tredici notti di rancore – che nemmeno in Giappone ha avuto una pubblicazione integrale di tutte le storie che la compongono sotto il titolo scelto dall’autore, Kamimura Kazuo. Un maestro dell’eros e dell’horror, che trasforma il fumetto in un capolavoro in bianco & nero, dove il manga si piega alla tradizione millenaria giapponese – derivante dalla cinese – del termine onryô che indica lo spirito giunto fra gli uomini per vendicare un grave torto subìto. Il rancore (urami) genera vendetta, espressa in vari modi letterari e artistici. La complessità di ciò che si scatena, nelle trame tradizionali e in quelle disegnate, è spiegata molto bene dalle introduzioni di Maria Teresa Orsi e Paolo La Marca, quest’ultimo delegato anche all’impresa della traduzione. E bisogna dire che la cura imposta ai due grossi volumi (che si scorrono seguendo il verso di lettura giapponese, contrario all’occidentale) preserva la qualità compositiva delle tavole, senza contare l’enorme lavoro di ricerca “investigativa” e comparativa che è stato necessario perché l’opera possa effigiarsi meritoriamente di prima edizione in assoluto al mondo.
Gli inchiostri di Kamimura Kazuo fanno rivivere gli spiriti delle tenebre e la bellezza di una protagonista – Oiwa – alla mercè di uomini perennemente cattivi e animati da interessi troppo carnali perché possano sopravvivere a lungo: da tempi e luoghi lontanissimi giungono, sulle stesse strade, entità in grado di dare sfogo a vendette ineguagliate. In effetti il titolo originale (Onryô yûsan’ya può intendersi Tredici notti di spiriti vendicativi, ma La Marca precisa che tutte le storie qui derivano da un seme originale che “rancore” definisce in modo superbo. Il repertorio giapponese, in questo caso, è sterminato e il lettore occidentale può soltanto perdersi nella fascinazione di tavole rappresentanti iconografia femminile e paesaggio che traboccano dalla carta per espandersi, attraverso l’occhio, in tutta la camera in cui stiamo bloccati da sorpresa e timore. E forse le malefatte ispirative delle storie non sono tanto lontane da quanto ci spaventò nell’infanzia: morte e inseguimenti, ombre scure sotto un tavolo o dietro una porta. Ombre in grado di muoversi in azioni decisamente cruente.
Kamimura Kazuo (1940-1986) viaggia continuamente fra tradizione e stile cinematografico, le figure femminili ammaliano e i paesaggi discendono direttamente dalle “immagini del mondo fluttuante” (ukiyo-e) che tanta influenza hanno avuto anche in Occidente, tramite artisti come Hokusai e Hiroshige. I piani prospettici s’intersecano e talvolta, nello splendore di un technicolor saturo di bianchi vivissimi e neri profondi, s’accende un lampo di colore come magnesio che incenerisce l’anima degli attori dentro la storia e l’anima nostra indugiante sulla pagina. Le scene d’amore si soffermano più di noi su particolari che si prendono l’interezza di una tavola: un capezzolo, una palpebra, una ferita appena visibile che ci ricordano le modalità visive di Crepax allestite in tutta la propria opera. I due artisti condividono gli stessi anni, e strade molto simili, come sottolinea La Marca e altresì intuisce un occhio non frettoloso nel comprendere un artista che ha segnato fortemente il fumetto di un’epoca pur nascendo soprattutto come puro illustratore.
Tredici notti in cui perdersi ma desiderando, pur nel pericolo descritto con tanta lucidità, d’incatenarci alla bellezza quando viene usurpata in attesa che scatti la vendetta. Vivendo oggi in una notte ancora da numerare vorremmo una di queste bellezze capace di dar vita, dopo l’umiliazione, a uno spirito abile nel far fuori dittature familiari e statali. Il rimbalzo dalla letteratura alla realtà potrebbe finalmente risistemare quel che di storto viaggia intorno a noi. E probabilmente, dall’altra parte, Kamimura Kazuo avvertirebbe un moto di felicità fra le ombre dello spazio in cui oggi alberga.