Poetessa, performer, rapper, lettori e pubblico conquistati anche in Italia attraverso numerosi libri tradotti, Leone d’argento alla Biennale Teatro di Venezia, Kae Tempest mette in campo l’ormai ventennale esperienza con questo penetrante Connessioni, netto pamphlet (e memoir) su cosa voglia dire rivolgersi agli altri tramite la parola poetica. La “dura” parola che dovrebbe aiutarci a connettersi con il mondo e con chi lo abita. Dura perché creativa al limite del respiro più profondo, e contro il vivere alla cieca pensando solo alla sopravvivenza. Tempest invita, iniziando da sé stessa, a essere ancorati al presente, a fare qualcosa con le proprie mani (qualsiasi cosa) perché chi studia le stelle sia sullo stesso piano di chi prepara la cena, o beve, o scrive narrando la parte intima di sé che conosce e che, lungi dal trattenerla integralmente, la offre a chi ascolta in piena presenza e non attraverso lo sguardo fisso su uno schermo. Tempest si rivolge al lettore universale, a colui che interagisce con il testo, la musica, l’arte, con gli estranei e gli amanti, con il multiforme “particolare” di cui parlava Joyce in relazione all’universale.
La poetessa dichiara senza mezzi termini il proprio piacere di fronte alla gente, con l’attenzione e il sudore, l’alcol e la bellezza, verso altri a cui “del mondo frega qualcosa”. Lei scrive per chi si adatta e per chi non lo fa, discute sulla pagina di scrittura e allo stesso modo descrive l’adrenalina del palco, l’ansia del sound check collocandosi di fronte al pubblico nel pieno dell’osservazione. E sorprende la lucidità con cui affronta e risolve tutti gli inciampi legati alla raggiungibilità. E con quanta leggerezza sistema il proprio corpo tremante sotto i riflettori del mondo, morsicando il più possibile l’accadimento. “Recitare poesie livella la sala”: quanti hanno avuto la sua stessa impressione, capendo che non c’è bisogno di nient’altro oltre a una persona che parla e un’altra che ascolta? Si sia in un’aula scolastica, in un pub, per strada o in parcheggio, nel centro di Londra, in una prigione o in Bond Street, nulla cambia, è sempre la stessa azione fatta di parole “taglienti e risonanti”. Leggendo Connessioni si ha l’impressione di essere dentro un party che finalmente non vessi e ricatti, non faccia di stravaganza bandiera, né di letteratura uno straniante senso di labirinto e astrusità.
Nel libro è facile accogliere un sentimento dominante, individuato e descritto dall’autrice con vera passione, dove le idee si strutturano nel testo poetico fiduciose d’esser lette e ascoltate meglio e senza impedimenti e imbarazzi. Dalle consapevolezze pre-Covid al ritrovarsi ostaggio di spazi chiusi, Tempest descrive l’arte del farsi largo negli accidentati terreni digitali e del liberare la barriera – ancora una volta tramite la poesia – dei fatti psichici nascosti. L’esigenza di essere salvati è comune, purtroppo la divinità non è più fra noi e i più si affidano a oggetti elettronici e mitologie tossiche. “Poesia a tempo pieno”, incalza Tempest, significa vivere di essa e non solo al fine di sbarcare il lunario, ma di liberarsi dall’ossessione per sé stessi rimandando ogni difetto agli altri poeti. Se ciò che compete è il superare gli altri, il fallimento è proprio davanti a noi. La citazione di Beckett appare perfetta: l’artista che persevera deve avere la speranza di “fallire meglio”.
Alla fine bisogna accettare la variazione imposta a questi primi due decenni del 2000, e far sì che uno “spettacolo di parole” come quello messo in campo da Tempest sia costituente, e la “connessione” vada oltre la mondanità e fermi il torpore. E ogni dettaglio sia anch’esso parte del linguaggio come àncora del presente.