Julio Manuel de la Rosa / Verso la diserzione totale

Julio Manuel de la Rosa, L’ultima battaglia, tr. di. Marino Magliani, Scritturapura, pp. 100, euro 15,00 stampa

Prima di questa traduzione per le edizioni Scritturapura, l’autore sivigliano Julio Manuel de la Rosa (1935-2018) era completamente inedito in Italia. Su di lui hanno dunque scommesso sia la casa editrice – con la speranza, chiaramente esplicitata nel prologo di Marco Ansaldo, di replicare il successo avuto con La madonna col cappotto di pelliccia (2015) dell’autore turco Sabahattin Ali – sia una consolidata squadra formata da Alessandro Gianetti (traduttore italiano di stanza a Siviglia e prefatore del libro), Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi (rispettivamente, traduttore e revisore).

Oltre all’evidente legame di Gianetti con la città di de la Rosa, L’ultima battaglia evidenzia una comunanza tematica con l’opera di Marino Magliani, e in particolare con Il cannocchiale del tenente Dumont (2021, selezione Premio Strega). La diserzione dall’Armata Rossa, durante la seconda guerra mondiale, dell’anonimo protagonista del romanzo breve di de la Rosa, richiama infatti la diserzione dei personaggi di Magliani, e non solo per la comune volontà di affrontare uno stesso tema – quanto mai urgente, in un’epoca sempre più militarizzata, anche nell’inconscio collettivo – ma anche per la complessità verticale di tale diserzione, fino a esiti spesso allucinati, a tratti metafisici, e forse assoluti.

Chi diserta, infatti, diventa esplicitamente un nuovo ebreo errante, secondo le parole stesse del narratore e protagonista della storia: è un’anima condannata a vagare in eterno, portando sempre con sé il proprio stigma, ma ha anche la capacità di denunciare nella sua interezza il crimine dal quale sta fuggendo. È anche per questo motivo, ossia per questa identificazione dai toni sicuramente leggendari, che ha vita breve la storia di solidarietà e consolazione reciproca del protagonista con una donna, Ana, che gli dà rifugio nel proprio casolare, ottenendone in cambio la protezione: chi ha disertato, pensa amaramente il protagonista mentre abbandona la donna, non può che continuare a disertare.

Se le pagine dedicate a questo incontro sono tra le più alte e intense di tutta la narrazione, il secondo grande personaggio del romanzo è senza dubbio la steppa: distesa infinita e spesso uguale a sé stessa, rende pressoché impossibile l’orientamento per chi diserta senza bussole, mappe o altri strumenti. Come il deserto è un luogo che favorisce le allucinazioni, ma questo non succede soltanto per le caratteristiche intrinseche del paesaggio; è, piuttosto, la combinazione dell’esperienza della steppa con quella della guerra a risultare pericolosa. Come riflette il protagonista a un certo punto, «come avevo potuto seriamente pensare di essere l’unico abitante della steppa? La guerra altera gravemente le facoltà razionali dell’essere umano, su questo punto il mio amico filosofo aveva ragione».

La più potente di queste fate morgane è l’esperienza apparentemente senza fine dell’identico, che finisce per essere quasi confortante per chi, abbandonando il proprio esercito e il fronte, ha rinunciato alla propria identità e appartenenza, nonché a un quadro valoriale ideologicamente definito, avendone chiaramente percepito l’assurdità d’insieme nel corso del conflitto. Un’esperienza dell’identico che si rivela infine illusoria, dato che finisce per incontrare per ben due volte l’orrore del “Grande Baraccone”, come il protagonista chiama, con un’espressione assai efficace, il lager nazista. Qui, il punto di riferimento diventa Primo Levi, del quale il protagonista, dopo aver raccontato un loro finzionale incontro nel campo di sterminio, dà una propria immagine, in retrospettiva, appoggiandosi talvolta come a una necessaria stampella alla lucidità dello scrittore italiano nell’affrontare l’enormità aberrante del “Grande Baraccone” in tutte le sue implicazioni.

Ci sono altre fonti dichiarate in nota, come il film Il nemico alle porte (2001) di Jean-Jacques Annaud, per quanto concerne i cecchini della battaglia di Stalingrado. D’altronde, è come se la narrazione cercasse ogni tanto una sorta di appoggio nella cultura occidentale – che, dal 1945 in poi, ha attraversato in lungo e in largo la narrazione della seconda guerra mondiale e dei campi da sterminio, con esiti anche molto diversi tra loro – per poter affrontare con quanti più strumenti possibili lo scontro titanico, intimamente tragico, tra l’orrore totale della guerra e dello sterminio quello che, in ogni luogo e in ogni tempo, potrebbe essere la risposta più completa e decisiva, ovvero la diserzione totale.