Il Libro di Manuel, pubblicato da Julio Cortàzar (1914-1984) nel 1973, era stato, fino alla presente recentissima uscita per SUR, l’unico romanzo del grande autore argentino mai comparso nella nostra lingua. Einaudi aveva sempre prontamente tradotto, in tempi non troppo sfasati rispetto alle edizioni originali, le varie antologie di racconti, Bestiario (1951), Final del juego (1956), Las armas secretas (1959), Historias de cronopios y de famas (1962), Todos los fuegos el fuego (1966), Octaedro (1974), (a mio modestissimo parere le sue opere più memorabili: come scrisse Julio, “Se la narrativa assomiglia alla boxe. Un romanzo può vincere ai punti, ma un racconto vince sempre e solo per knock out”, e i suoi racconti erano come i pugni di Muhammad Alì) – oltre agli altri tre romanzi, Los premios (1960), Rayuela (1963) e 62 Modelos para armar (1968), e perfino l’ultima opera narrativa, Los autonautas de la cosmopista, del 1982, scritta due anni prima dalla morte, era uscita in italiano, pur con trent’anni di ritardo; nel frattempo era subentrata anche Guanda, dando spazio ad altre due antologie di narrativa breve più tarde come Alguien que anda por ahì (1977) e Queremos tanto a Glenda (1980). Libro de Manuel però era rimasto totalmente negletto ed era strano perché di un romanzo si trattava e non di miscellanee inclassificabili (e totalmente geniali, ma certo meno vendibili) come La vuelta al día en ochenta mundos (1967) e Último round (1969) – anche queste a lungo trascurate e riscoperte solo molto più tardi prima da ALET e poi da SUR. Ora nel lodevole intento di offrire al lettore italiano la possibilità di reperire sotto la stessa etichetta l’opera completa del più importante scrittore latinoamericano insieme a Borges, SUR dopo aver riempito praticamente tutte le lacune accumulatesi negli anni – Un tal Lucas (1979), Deshoras (1982), la poesia di Salvo el crepúsculo (1984), i tre volumi di lettere, ecc. – ci propone finalmente il testo forse meno amato di tutta l’opera cortazariana.
Difficile indagare sulle ragioni di questo relativo disamore nei confronti di un romanzo che molti critici hanno voluto definire “opera minore”, un romanzo che non piacque troppo agli aficionados perché qui lo scrittore abbandonava le consuete derive fantastiche per tentare la via del realismo (un “realismo” ovviamente alla Cortàzar) e dichiarava fuor di metafora il suo esplicito impegno politico (come avrebbe fatto in più occasioni, negli anni seguenti a favore del Sandinismo nicaraguense, quando ricevette il prestigioso Premio Médicis nel 1974 a Parigi, Cortázar donò tutti i proventi dei diritti d’autore del libro per l’aiuto ai rifugiati politici argentini) finendo per scontentare però anche i militanti e i guerriglieri della sinistra sudamericana inviperiti dalla rappresentazione vivacemente critica, in certi casi quasi sarcastica, che si dava di loro, del loro linguaggio e dei frequenti luoghi comuni della loro mentalità. Cortàzar si era schierato lealmente e consequenzialmente al loro fianco ma non acriticamente, si era schierato alla Cortàzar: «La mia idea del socialismo latinoamericano è profondamente critica», avrebbe scritto altrove. E rincarando la dose: «La liberazione interiore dell’uomo latinoamericano è ben lontana dal corrispondere alla sua liberazione esteriore. Molti dirigenti della sinistra latinoamericana sono prigionieri di un linguaggio tristemente retorico che proviene direttamente dall’avversario. Per questo le rivoluzioni falliscono, si estinguono, si convertono in burocrazie, perché l’uomo non è cambiato. Anzi è divenuto ancora più mediocre. Con un uomo mediocre si può forse fare un esercito ma non una rivoluzione». O, picchiando ancora più duro: «Mi rattrista che molti dei dirigenti rivoluzionari diventino così seriosi, a un punto tale che finisce per allontanarli dalla realtà. Una rivoluzione che non prenda in considerazione la necessità del gioco, dell’allegria, dell’espansione mentale, sentimentale, psicologica, è una rivoluzione condannata ad anchilosarsi, a burocraticizzarsi, a ridurre tutto a tessere ed espedienti».
È questo il tono ideologico che domina tutto il Libro di Manuel, la storia rapsodica di un gruppo di esuli argentini a Parigi, il Grancasino (la Joda) come si autodefiniscono, che, da principio semplici provocatori situazionisti attivi in innocue azioni di disturbo antiborghese, le “microagitazioni”, come mangiare in piedi in un ristorante chic, gridare durante una proiezione al cinema, manomettere scatole di fiammiferi nelle tabaccherie, finiscono progressivamente per alzare il livello dello scontro trasformandosi nella sgangherata cellula terrorista che intende organizzare il rapimento di un gerarca della Junta argentina in visita diplomatica a Parigi. È ovvio che le cose non andranno esattamente come progettato.
La narrazione sperimentale di Cortàzar ricorre questa volta al pastiche come tecnica letteraria, interpolando gli elementi del romanzo convenzionale – dialoghi, descrizioni, monologhi, ecc. – ad articoli ripresi dalla stampa contemporanea (e inseriti nel testo nella loro natura di ritagli), più altri materiali diversi – poesie, grafici, relazioni – intese a rompere la linearità della lettura. Un’alternanza fra la prima e la terza persona sposta continuamente il punto di vista dei personaggi depistando il lettore e riferendosi spesso a un enigmatico testimone esterno “el que te dije” (chi ti dicevo). Sorta di diario e album di ritagli, il testo è una lettera rivolta dai genitori al neonato Manuel, perché possa leggerla quando sarà grande, in un mondo futuro che si auspica migliore, apprendendo così in che modo la sua famiglia ha contribuito a crearlo. A rimarcare l’immediata presenza dell’attualità del tempo nel testo è significativo che il prologo della vicenda culmini nella data del 7 settembre 1972, mentre ai Giochi Olimpici di Monaco l’attentato di un commando palestinese provoca la morte di undici atleti israeliani e che la voce narrante metta in evidenza come la notizia domini sui media di tutto il mondo, gli stessi media che hanno disconosciuto quanto avvenuto pochi giorni prima in un lontano carcere del sud dell’Argentina: il massacro di Trelew, quando sedici prigionieri, membri di organizzazioni armate, vennero illegalmente fucilati.
Oggi Manuel, se esistesse, sarebbe un uomo di mezza età e leggendo il suo libro si renderebbe dolorosamente conto di quanto gli sforzi dei suoi genitori – e anche quelli dello scrittore militante che lo ha immaginato – siano stati vani, di quanto le loro speranze siano state disattese: nulla è cambiato nel mondo, o è persino cambiato in peggio. Povero Manuel, povero Julio.