Ad Alberto Arbasino, seduto di fronte a lui, nel lontano 1961 Julien Green dice di non sapere cosa sono le influenze e che certo uno come Baudelaire dà la voglia di scrivere, ma che autori non letti talvolta possono spingere a provarsi con la pagina. I due parlottano in un appartamento quieto e imbottito di poltrone, tappeti, cuscini dove un elegante Green sente anche da lì la condotta solenne di Parigi che a tratti dimentica chi l’attraversa, attenta soltanto alle proprie statue e ai monumenti: una Parigi contenente tutti quei secoli che l’Europa nel frattempo ha dimenticato o addirittura distrutto.
Occorrono ben due decenni perché i brevi capitoli dedicati alla Ville lumière escano dalle tipografie per incantare quei lettori che di Green amavano soprattutto il Diario. Ma con i dovuti sentimenti e presentimenti si può certo dire che lo scrittore poco si fidi di quanto vede andando fuori casa, veleggiando leggero su scalinate e pendici che il più delle volte sono presenti soltanto nel ricordo perché demoliti da geometri e ingegneri meritori di alcunché tranne che di invettive. Flâneur, senza dubbio, s’avvicina a pietre vecchie e nuove della città fino a meravigliarsi, pian piano, di enigmi e poesia di cui occorre sempre sognare una volta rientrati a casa, e pronti per la notte. E fa capire ai poveri stranieri quanto sia vero il fascino di un’estate a Parigi, dopo che a lui, esule a New York, la città era stata confiscata durante la guerra. Green aveva bisogno che la Senna – gran arteria attraversante la città, gli nutrisse il cervello e i ricordi. Aveva bisogno dei suoi sogni brulicanti e di sconosciuti incontrati in rue de Beaujolais (e in altrettanti luoghi comunicativi) di cui raccontare a una Colette “occhi neri come il carbone”. Parigi è piena di sconosciuti, Green lo sa da sempre avendola percorsa “in tutti i sensi” non spaventato dalle lontananze fra i diversi quartieri: Parigi sa come farsi ricordare in un breve giro di frasi. Ogni arrondissement ha i suoi ritorni, dati da coloro che aspettano l’ora blu poco prima delle luci sulfuree della sera.
Molti sono i “quadri” a cui punta l’occhio affettuoso di Green: Parigi si offre come città totale, l’Europa non può che riflettervisi, senza nulla di più. I gradi della sua oscurità passeggiano insieme a magie, malintesi, calcinacci che se ne vanno a valle di demolizioni sempre pronte a lasciare il posto a ricostruzioni clamorose. Il Beaubourg mostrerà le viscere, come scrive, ma Green insiste: nato nel XVII arrondissement, pur allontanandosi varie volte ha sempre ritrovato slanci di ammirazione per alcune visioni concretizzate. Sotto i cieli grigi e il rosa di certe sere l’anima di Parigi ha il potere di far risorgere le sue scalinate perché per ogni angolo scomparso altri dieci ritornano con il popolo degli artisti che hanno avuto fame e sete della Francia. Green non ha dubbi durante le sue passeggiate: c’è stata la guerra e cos’altro può togliergli il respiro se non la croce di legno, a Notre-Dame, dedicata ai morti di Buchenwald? Avrà anche detto ad Arbasino di non avere finestre sulla strada ma abbiamo capito ben presto come nell’appartamento di rue Vaneau l’amour fou di Green non è stato mai intrappolato.