Non è ancora stato scritto il Libro che documenti l’influsso profondo che l’opera di Fjodor Mihailovic Dostoevskij, di cui quest’anno ricorre il duecentenario dalla nascita e il centocinquantenario della pubblicazione dei primi capitoli de I demoni, ha avuto sulla cultura europea. Non si contano gli studi critici e i romanzi che ancora oggi mostrano la loro indelebile impronta dostoevskiana, e in questo 2021 altri ancora ne usciranno. Tra le nazioni che hanno maggiormente subito il fascino di Dostoevskij vi è la Francia, la cui storia e la cui cultura si intrecciano in maniera inestricabile con quella della Russia per ovvi motivi – a causa delle due grandi Rivoluzioni che hanno cambiato per sempre la Storia d’Europa e del Mondo, la Rivoluzione Francese e la Rivoluzione Russa.
Nel 1849, all’età di 28 anni, Dostoevskij fu condannato a morte per la sua appartenenza a un circolo rivoluzionario fourierista. Attendeva la morte accanto al patibolo, quando all’ultimo momento fu graziato, e la pena di morte fu commutata in una condanna ai lavori forzati in un campo di prigionia in Siberia. Dopo aver scontato la pena scrisse il romanzo semi-autobiografico Memorie dalla Casa dei Morti (1862) dedicato alla sua esperienza di prigioniero, e successivamente le Memorie del sottosuolo (1864), un testo ancora oggi dirompente, un testo che ancora oggi rappresenta una delle letture preferite dei detenuti politici e dei carcerati in generale. L’uomo del sottosuolo di Dostoevskij rompe con la tradizione del romanzo dell’Ottocento e ci sbatte in faccia la crisi profonda della cultura europea: l’uomo del sottosuolo è malato e malvagio allo stesso tempo, la sua malvagità nasce dalla malattia dell’anima e dalla sua mancanza di valori, dal suo nichilismo, tutti elementi che diventeranno essenziali del romanzo del Novecento.
Dostoevskij non era un autore che scriveva ciò che il potere voleva sentirsi dire, allineato all’ideologia dominante, coccolato dall’establishment, come sono attualmente la quasi totalità degli scrittori, soprattutto italiani. Dostoevskij sapeva di cosa scriveva, perché l’aveva vissuto sulla sua pelle. Sapeva cos’era l’abiezione, conosceva il peccato, e aveva visto a quali gradi di bassezza può scendere un uomo quando è costretto a vivere in un mondo che ha perso i suoi tradizionali punti di riferimento.
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La cultura francese del Novecento, di cui l’autrice di questo nuovo libro su Dostoevskij, Julia Kristeva, è stata una colonna portante, forse memore del suo retaggio rivoluzionario – che sfocerà nel 1917 nella Rivoluzione d’Ottobre di Lenin, prosecuzione ideale della Rivoluzione Francese del 1789 – non può non dirsi dostoevskiana. Anche se Dostoevskij, dopo i giovanili ardori rivoluzionari, approdò a posizioni conservatrici, se non apertamente reazionarie, e a una concezione religiosa di tipo tradizionalista, la sua lucida e spietata analisi della forma mentis dei rivoluzionari ne I demoni (1871), soprattutto dei nichilisti russi dell’Ottocento, precursori degli odierni terroristi, gli ha permesso di prevedere con una lucidità incredibile il mondo impazzito in cui viviamo. Secondo questa interpretazione i terroristi islamici kamikaze di oggi, come sostiene il filosofo francese André Glucksmann nel saggio Dostoevskij a Manhattan (Liberal Libri, 2002), pubblicato a un anno di distanza dall’attentato alle Torri Gemelle, sono anch’essi dei nichilisti, sono figli di Dostoevskij.
Non è pensabile l’Europa di oggi senza Dostoevskij, non è pensabile l’Europa di oggi senza la cultura russa e il grande apporto dei romanzieri russi, e la stessa carriera straordinaria di un intellettuale come Julia Kristeva è un caso emblematico di un innesto slavo ed extra-europeo nella cultura francese ed europea che ha prodotto alcuni dei movimenti più innovativi della seconda metà del Novecento, come il post-strutturalismo, evoluzione naturale dello strutturalismo, che a sua volta nasce dal movimento dei Formalisti Russi e dalla Scuola di Praga, e si sviluppa ulteriormente nell’opera dello studioso marxista Mikhail Bachtin. Ed è proprio il celebre libro di Bachtin su Dostoevskij che una giovane Julia Kristeva portò con sé quando partì, nel 1965, dalla Bulgaria per svolgere le sue ricerche di letteratura comparata in Francia, ed è da questo innesto fecondo che è nato e si è sviluppato in Francia il post-strutturalismo, la critica del sapere-potere di Michel Foucault, le macchine desideranti di Deleuze e Guattari, e poi la Decostruzione di Jacques Derrida, anch’egli un elemento estraneo alla cultura europea, un elemento ai margini (era nato in Algeria), che poi nel tempo si è conquistato e ha dimostrato la sua centralità.
Non si capisce la cultura francese ed europea del Novecento senza l’apporto di questi intellettuali periferici, provenienti da realtà periferiche extra-europee, come A.J. Greimas, Albert Camus, Roland Barthes, Jacques Derrida, Tzvetan Todorov e la stessa Kristeva. Ma il più periferico di tutti era proprio lui, Dostoevskij, che da una oscura località della Siberia intuì quale fosse il male oscuro che minava dalle fondamenta gli ideali rivoluzionari in cui lui stesso aveva creduto e la nuova cultura europea.
La Francia è dunque quel paese in cui Dostoevskij è di casa, in cui i suoi potenti romanzi hanno trovato terreno fertile, in cui lo scrittore russo ormai da decenni viene affettuosamente chiamato Dosto, come se fosse un amico, un compagno di viaggio nella nostra discesa agli inferi del mondo moderno.
Eppure l’influsso di Dostoevskij non si limita alla sola Francia: se solo analizziamo la letteratura inglese, possiamo individuare un dialogo continuo e inaspettato a distanza – a partire dall’Ottocento – tra le opere di Dostoevskij e quelle di Charles Dickens, tra i romanzi di Dostoevskij e quelli di Robert Louis Stevenson (Il Terrorista), oppure alcuni romanzi di Joseph Conrad (L’Agente Segreto, Cuore di tenebra); ma possiamo andare a rintracciare la sua presenza anche in autori inglesi più vicini a noi come William Golding (Il Signore delle mosche) e James G. Ballard (Millennium People).
[A questo proposito rimandiamo all’ interessante saggio di Antonio Caronia “Delitto senza Castigo. La colpa come collante sociale nella narrativa di James Ballard”, in La città e la violenza. I mondi urbani e post-urbani di James G. Ballard, a cura di Paolo Prezzavento, OTIUM Edizioni, 2007. ]
Sulla scia di questo spostamento, di questo movimento verso Occidente del pensiero dostoevskiano, un pensiero che è l’Occidente, la quintessenza dell’Occidente, come sottolinea André Glucksmann, Dostoevskij è arrivato in America, è arrivato a New York, è arrivato a Manhattan. Eppure secondo tutto un filone della letteratura americana contemporanea, il nichilismo in America non è arrivato con i terroristi dell’11 Settembre, alfieri di un nuovo nichilismo islamico: ci è arrivato molto prima, e lo dimostra l’opera di alcuni scrittori come Thomas Pynchon, William Vollmann e William Burroughs, che in alcune delle loro opere hanno cercato di dimostrare come lo Spirito del Male, il Demone della Violenza e della Distruzione, fosse presente in America fin dall’inizio della sua storia, fin dai tempi di Erik il Rosso. Come non cogliere il riferimento dostoevskiano nel famoso slogan in cui Burroughs condensa la sua poetica, “Nothing is true, everything is permitted”, una frase che Burroughs attribuisce al Vecchio della Montagna, il capo della setta ismailita degli Assassini Hassan al Sabah, ma che in realtà sembra una variazione sul tema de I Fratelli Karamazov (“Se Dio non esiste… tutto è permesso”)? Dopo circa due millenni, nella formulazione di questo slogan e negli attentati dell’11 settembre 2001, il nichilismo degli Assassini e il nichilismo europeo si sono ricongiunti in un Inferno di devastazione e di morte.
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Nessuno meglio di Julia Kristeva poteva comprendere il mondo di Dostoevskij, le sue opere dal così grande impatto filosofico… Lei che è stata educata in un ambiente di religione greco-ortodossa nel suo paese natale, la Bulgaria, lei che si è trasferita poco più che ventenne in Francia, paese centrale per la cultura europea, di cui Dostoevskij è uno dei padri fondatori. Lei che è stata uno dei principali esponenti dello strutturalismo e del post-strutturalismo, di tutto quel movimento che, partendo dagli studi di Claude Levi-Strauss e di Ferdinand de Saussure, ha prodotto la teoria strutturalista di Greimas (di origine lituana), di Gérard Genette, di Todorov (bulgaro come la Kristeva), di Foucault e di Jacques Derrida.
Nell’introduzione al suo libro, Julia Kristeva ricorda il suo primo approccio con i testi di Dostoevskij, e ricorda che il padre gliene sconsigliava la lettura, in quanto troppo demoniaco… Lei naturalmente disobbedì, si immerse completamente nell’elemento distruttivo dostoevskiano e ne rimase “abbagliata, sopraffatta, inghiottita”, all’inizio soprattutto da Delitto e castigo (1866) e poi dagli altri romanzi. Come suo solito, nell’analisi Kristeva si lascia trasportare dal significante più che dal significato, discettando su alcuni termini utilizzati da Dostoevskij che rivelano aspetti centrali della sua poetica, ma sempre in un’ottica di scivolamento del significante, procedimento a volte stucchevole (forse perché più che i Seminari di Jacques Lacan ci ricorda gli sproloqui di Massimo Recalcati…), a volte foriero di straordinarie intuizioni. Non è questa la Kristeva che sopravvivrà nel prossimo secolo: probabilmente nei prossimi decenni continueremo a leggere i suoi testi di analisi letteraria, filosofica, semiologica, psichiatrica e psicanalitica, e butteremo via tutti quegli scivolamenti dei significanti, tutte quelle formule matematiche di stampo strutturalista nelle quali Julia Kristeva si era illusa di condensare il significato profondo e l’origine dell’efficacia di un testo letterario. Non si può spiegare con una formula matematica un testo letterario: è stata questa l’illusione più grande dello Strutturalismo e in parte del post-Strutturalismo; non è questo l’aspetto che sopravvivrà dello Strutturalismo…
Fin dalle prime pagine del suo libro Kristeva sottolinea come i romanzi di Dostoevskij si siano intrecciati in maniera inestricabile con le circostanze della sua vita. Lei ricorda di quando partì con una somma ridicola in tasca, equivalente a 5 dollari, alla volta di Parigi, per svolgere una ricerca di letteratura comparata. Il libro che la accompagnava era appunto il libro di Mikhail Bachtin Dostoevskij: Poetica e stilistica (1963), in cui il grande critico cercava di spiegare la grandezza di Dostoevskij introducendo la categoria di romanzo dialogico, polifonico. Ciò dimostra come anche nella Bulgaria degli anni Cinquanta e Sessanta, roccaforte della ortodossia sovietica anche in campo letterario, un nuovo pensiero si fosse fatto strada, a partire dalla Letteratura, un pensiero alternativo al totalitarismo sovietico. La giovane Kristeva si rese conto, leggendo i romanzi di Dostoevskij, che lo scrittore russo non poteva essere semplicemente accantonato né tantomeno condannato come uno “scrittore reazionario” e un “nemico del popolo”, come recitava la propaganda dell’epoca.
Si comprende quindi che in questa fase, negli anni Venti del nuovo Millennio, in questa fase di riflessione retrospettiva sulla sua carriera, Julia Kristeva abbia sentito il bisogno di fare un bilancio della sua formazione culturale e ritornare a Dostoevskij, che lei definisce “lo scrittore della mia vita”, di riprendere le sue pagine così potenti e ricreare quella temperie intellettuale che ha portato dai Formalisti Russi alla Scuola di Praga e infine allo Strutturalismo. L’influsso delle teorie provenienti dalla Russia pre-sovietica e poi sovietica è stato decisivo, anche a livello politico, nella sua formazione culturale (anche se poi la Kristeva abbracciò negli anni Sessanta, con il marito Philippe Sollers e con tutto il gruppo della rivista Tel Quel, le tesi del comunismo di stampo maoista). In anni recenti, nel 2017, è venuto fuori che Julia Kristeva ha collaborato per un certo periodo con i servizi segreti bulgari, a quanto pare senza fornire segreti militari o alcunché di significativo, ma soltanto un quadro generale dell’intellighenzia francese della sua epoca… Forse era impossibile all’epoca uscire dalla Bulgaria senza impegnarsi in qualche modo a fornire informazioni utili sul paese nel quale ci si trasferiva…
Questo nuovo Libro di Julia Kristeva ci fa capire la ricchezza dello scambio culturale che tra la fine dell’Ottocento e nel corso del Novecento c’è stato tra la letteratura russa e la cultura europea in generale, e di questo scambio fecondo i romanzi di Dostoevskij sono un elemento essenziale. È nota la profonda conoscenza che Dostoevskij aveva dei grandi romanzieri francesi dell’Ottocento, Victor Hugo e Honoré de Balzac in primis, e dei grandi filosofi e pensatori romantici tedeschi. È lo stesso Dostoevskij a dirlo in una delle sue lettere (che Kristeva cita nella breve antologia di testi dostoevskianij che conclude il suo saggio), spiegando che alcuni autori che hanno posto le basi della cultura europea, come Friedrich Schiller, l’autore dell’Inno alla Gioia, hanno trovato terreno fertile e sono stati più apprezzati in Russia che nella loro patria oppure in Francia. Lo stesso accade oggigiorno, a parti invertite, al grande Dostoevskij, che pur con tutto il suo sciovinismo slavofilo, anzi nonostante questo suo essere profondamente russo – o forse proprio per questo – è diventato un vero e proprio pilastro della cultura europea, che è più apprezzato al di fuori della Russia e che rappresenta ancora oggi un punto di riferimento imprescindibile della nostra formazione culturale.
Nel corso della sua lunghissima carriera, la Kristeva ha incrociato più volte le tematiche di Dostoevskij, ricollegandole sempre alla sensibilità di alcuni grandi della letteratura francese. Basti pensare al tema dell’abiezione, cui la Kristeva – che nel corso della sua carriera è stata anche psichiatra e psicanalista sulla scia della psicanalisi di Lacan – ha dedicato un libro molto importante come Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione (1980). L’abiezione è un elemento centrale sia nell’opera di Dostoevskij che in quella di un altro grande scrittore francese, altrettanto scandaloso e indecente, altrettanto reazionario e indigesto, altrettanto emarginato e marginale eppure centrale, come Louis-Ferdinand Celine. Per non parlare di uno scrittore come Emmanuel Carrère, che ha esplorato nei suoi romanzi gli abissi dell’abiezione che caratterizzano la vita di alcuni tra i più spietati serial killer (L’Avversario) oppure di alcuni uomini politici di successo (Limonov). Carrère ha fatto dell’abiezione uno dei caposaldi della sua poetica, ed è questa certamente una delle ragioni della sua consonanza profonda con Dostoevskij e con un altro grande scrittore del Novecento che come lui ha vissuto fino in fondo l’esperienza dell’abiezione, della follia e dell’insuccesso: Philip K. Dick.
Persino in uno scrittore apparentemente lontanissimo da Dostoevskij come Marcel Proust si può cogliere un’assonanza profonda con lo scrittore russo, quando leggiamo di personaggi come il Barone di Charlus nella Recherche, discendente dell’illustre famiglia dei Guermantes, che viene trascinato dalla sua omosessualità nel mondo dell’abiezione, in cui lo stesso Proust vede rispecchiarsi i propri sensi di colpa. I personaggi come Charlus, nobili decaduti, da veri snob – nella accezione originale che Proust dà a questo termine – godono nel guardare dall’alto l’abiezione degli altri, anzi godono nel trascinarli nel vizio e successivamente godono nello sprofondare essi stessi nell’abisso del vizio e dell’abiezione. Dunque il Dostoevskij più duraturo è l’esploratore del sottosuolo, lo scrittore che ha vissuto situazioni estreme, che ha compreso che l’uomo contemporaneo gode della sua abiezione, della sua degradazione, della sua umiliazione. Ne L’eterno marito (1870), per esempio, uno dei personaggi, Pavel Pavelic, gioisce di essere l’eterno marito, anzi gode a tormentare l’ex amante della moglie. Il personaggio anonimo protagonista di Memorie del sottosuolo (1864) gode di vivere nel sottosuolo, di essere umiliato dagli altri. I protagonisti delle opere di Dostoevskij si ritrovano nella fogna e ci si trovano pure a loro agio, godono a degradarsi, a umiliarsi, a superare i limiti dell’umanità stessa, sono gli alfieri del nichilismo che caratterizza la nostra società contemporanea. In questo vero e proprio compiacimento nella propria degradazione Dostoevskij precorre anche le teorie di un altro grande intellettuale francese, René Girard, che ha analizzato a fondo la complessità del cosiddetto “desiderio triangolare” nei romanzi e nei personaggi di Stendhal, Proust e Dostoevskij, e le metamorfosi del sacro nella nostra società contemporanea.
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Ci sono oggi in Russia degli scrittori che si possano paragonare a Dostoevskij? Ci sovviene soltanto un nome, quello del politico di successo di cui sopra, Eduard Limonov, scomparso nel 2020, uno scrittore che ha intrecciato la sua esistenza con la politica proprio come ha fatto Dostoevskij, uno scrittore che, pur non raggiungendo le vette di scrittura del grande romanziere russo, con la sua vita estremamente avventurosa e piena di contraddizioni e di situazioni “degradanti”, situazioni che ha sempre rievocato con un certo compiacimento, ha percorso una parabola esistenziale a suo modo dostoevskiana. Limonov ha continuato questa tradizione dei veri scrittori che scrivono di quello che hanno effettivamente vissuto. Anche Limonov, come Dostoevskij, non era uno scrittore da salotto, da talk show, ma era uno scrittore controverso, da amare o odiare con tutte le proprie forze, perché scriveva di ciò che aveva vissuto sulla propria pelle, scriveva perché aveva qualcosa da dire.
Dostoevskij è uno scrittore che è al centro della cultura europea perché nei suoi romanzi si trova un rapporto strettissimo con il nichilismo che è un prodotto tipico di questa cultura. Nella cultura europea esiste un rapporto strettissimo tra il non-essere e il godimento, sarebbe a dire il godimento del non-essere, il piacere che nasce dall’annichilimento. Il sottosuolo è dentro di noi… e la scrittura di Dostoevskij procede oltre la psicanalisi di Sigmund Freud, che Dostoevskij non riuscì mai veramente a capirlo, forse perché lo aveva già superato nella sua analisi delle motivazioni che spingono gli uomini verso l’abiezione più totale, aveva portato la sua critica della civiltà europea alle estreme conseguenze. Dostoevskij rivela nei suoi romanzi l’esistenza di una pulsione di morte universale, la pulsione verso il nulla, verso l’annientamento, il vuoto assoluto che diventa una forza che muove la Storia… come nel suicidio di Kirillov ne I demoni. Giustamente ci ricorda Kristeva che Memorie dalla casa dei morti (1862), primo grande romanzo di Dostoevskij, è già una denuncia delle colonie penali, del contratto sociale totalitario, dell’universo dei campi di concentramento del Ventesimo secolo. In questa opera di Dostoevskij troviamo in nuce Il processo di Franz Kafka, Se questo è un uomo di Primo Levi, Una giornata di Ivan Denisovic di Aleksandr Solzenicyn. Anche Dostoevskj, come Levi, era stato all’Inferno, e ne era uscito fuori con una nuova consapevolezza. La cultura europea, che nasce con la discesa di Dante Alighieri all’Inferno, con l’abiezione estrema dei grandi personaggi dell’Inferno, raggiunge il suo culmine con la discesa di Dostoevskij nell’Inferno del bagno penale e con il nichilismo assoluto de I demoni. In poco meno di cinquecento anni, siamo passati dai diavoli e dalle anime dei peccatori di Dante ai demoni e alle anime degli internati nell’Inferno sulla terra che sono i campi di concentramento, che sono già prefigurati nelle colonie penali descritte da Dostoevskij. Noi europei abbiamo prodotto, nella Russia dell’Ottocento, il nichilismo e il terrorismo, l’annientamento dell’essere umano nel campo di prigionia, lo svuotamento della personalità umana al servizio di uno stato totalitario, il terrorista che persegue l’annientamento dell’Umanità. Questo prodotto, questo modello, l’Occidente lo ha poi esportato in tutto il mondo.
Ecco, questo è un elemento tipico della cultura europea che dobbiamo a Dostoevskij, oltre che a Nietzsche: il nichilismo. La morte di Dio è un prodotto della cultura europea, è l’approdo finale di una politica basata esclusivamente su un presupposto razionale e materialistico che viene spinto sino alle estreme conseguenze. Dostoevskij arrivò fin sull’orlo di questo baratro, di questo abisso, ma fece in tempo a ritrarsi prima di sprofondarci dentro. Nietzsche invece, nei suoi ultimi anni di vita, sprofondò progressivamente nella follia. Questo nichilismo, che implica la Morte di Dio, prodotto tipicamente europeo, elaborato sul piano filosofico da Friedrich Nietzsche ne La gaia scienza e in Così parlò Zarathustra, e sul piano letterario da Dostoevskij nei suoi romanzi, culmina nel lucido suicidio del rivoluzionario Kirillov ne I demoni. Kirillov si uccide per dimostrare l’assoluta inesistenza di Dio e il suo status di uomo-Dio, la sua assoluta libertà. “Se Dio non esiste, allora tutto è permesso”, è la conclusione cui si giunge ne I Fratelli Karamazov. È questo l’approdo cruciale de I Fratelli Karamazov che instaura un dialogo Dostoevskij-Nietzsche, uno scontro dialettico tra il teorico dell’uomo nuovo privo di Cristo e il teorico del Superuomo. Siamo europei, siamo nichilisti, abbiamo ucciso Dio, quindi tutto ci è permesso…
Gli intellettuali francesi hanno ammirato in Dostoevskij questo suo coraggio di superare il limite, di proporre personaggi apparentemente inumani eppure umanissimi. Impossibile non pensare a Dostoevskij quando si leggono le opere “esistenzialiste” di alcuni importanti scrittori francesi come André Malraux (La condizione umana, 1933), oppure le opere letterarie di Jean-Paul Sartre (Erostrato, 1939 e I sequestrati di Altona, 1959) e altre opere letterarie francesi che hanno trattato tematiche “dostoevskiane”. Pensiamo all’opera teatrale I Giusti (1950) di Camus – che ne L’uomo in rivolta (1951) ci ha fornito una straordinaria analisi dell’animus del rivoluzionario professionista – dove i protagonisti, membri di una cellula rivoluzionaria, si pongono esplicitamente il problema dei bambini: “cosa facciamo se in un attentato ci va di mezzo un bambino? Possiamo accettare che in nome della nostra causa un bambino muoia?” Ecco, di fronte alla possibilità che ci vadano di mezzo dei bambini, il terrorista del Novecento quasi sempre si ferma, ci ripensa, modifica il suo piano d’azione… E il tema dei bambini è un tema tipicamente dostoevskiano, e più il tempo passa e più ce ne rendiamo conto. La violenza sui bambini e lo stupro dei bambini rappresentano per Dostoevskij l’approdo ultimo dell’abiezione dell’uomo moderno: quando muore un bambino, quando un uomo stupra una bambina, il mondo si ferma, inorridito per la sua stessa crudeltà. La sofferenza dei bambini è l’accusa più grave che si possa rivolgere contro Dio stesso: “Perché consenti che un bambino, soffra, che un bambino venga stuprato, che un bambino venga ucciso?” Ecco perché alcuni hanno definito i romanzi di Dostoevskij le Sacre Scritture del nostro tempo. Come nei Libri dell’Antico Testamento, alcuni dei personaggi di Dostoevskij accusano Dio per le sofferenze degli innocenti e la crudeltà del Mondo. Possiamo soltanto immaginare cosa avrebbe scritto Dostoevskij se fosse vissuto ancora per qualche anno, in quel romanzo che aveva progettato, un romanzo “apocalittico” che avrebbe avuto come protagonisti i bambini… Ecco perché non c’è niente di più abietto, di più mostruoso, dei bambini-soldati tipici delle guerre moderne, dei bambini-terroristi che vediamo in azione nei video dell’ISIS, dei bambini-kamikaze…. Ma non illudiamoci: quei bambini-terroristi non sono qualcosa che ci è completamente estraneo. Quell’odio, quel nichilismo, nasce dalla cultura europea, che ha prodotto gli orrori del Novecento, compresi i massacri di bambini. Quei massacri, quell’orrore, come grida Kurtz citando Conrad ed Eliot in Apocalypse Now, lo abbiamo prodotto noi….
La consapevolezza dell’uomo che è sprofondato nell’abiezione, del condannato a morte o del terrorista, spinge i protagonisti delle opere di Dostoevskij a superare i loro limiti e attingere a una nuova consapevolezza, al momento decisivo in cui si intuisce la nascita di un nuovo mondo, di una nuova epoca.
Con questo libro di Julia Kristeva su Dostoevskij finalmente si ricongiungono alcuni fili che soltanto pochi attenti osservatori erano riusciti a dipanare nel rapporto tra la cultura europea in generale e un gigante come Dostoevskij. Si comprende allora il fascino che la figura di Dostoevskij ha rappresentato per gli intellettuali francesi, tanto più per una intellettuale come Julia Kristeva, cresciuta in un milieu di fede greco-ortodossa e proveniente da un paese slavo come la Bulgaria. Dostoevskij, prima di approdare a Manhattan, come recita il libro di Glucksmann, è approdato a Parigi, e qui ha plasmato profondamente la formazione culturale degli intellettuali francesi, e non solo dei letterati. Dostoevskij ha avuto un influsso profondo su tutta la cultura europea, anzi su tutta la cultura occidentale; ne va finalmente riconosciuta la profondità filosofica, al pari di un Nietzsche, di un Kant, di un Heidegger. Dostoevskij è la nostra modernità, nel bene e nel male.
Dostoevskij è lo scrittore che meglio ha saputo raccontare il nichilismo dei nostri tempi, lo scrittore che aveva già individuato nei rivoluzionari russi di fine Ottocento i padri di quel nichilismo che caratterizza la cultura occidentale odierna, e che ha partorito quelle figure di nichilisti compiuti che sono i terroristi, compresi gli odierni terroristi islamici.