“Vivere significa fare esperienza della perdita” (Am Leben zu sein bedeutet, Verluste zu erfahren): questa l’ottima traduzione di Flavia Pantanella del pensiero cardine intorno al quale si costruisce questo originalissimo libro della scrittrice e designer berlinese Judith Schalansky, una sorta di Wunderkammer che si origina dai margini del mondo, quelli che non lasciano traccia, se non flebili, nella memoria personale e culturale.
Dodici capitoli, ognuno dedicati a oggetti (l’unicorno di Otto von Guericke), animali (la tigre del Caspio), opere scritte (i carmi d’amore di Saffo; l’enciclopedia nel bosco di Armand Schultess; i sette libri di Mani), edifici (Villa Sacchetti; il castello dei von Behr; il palazzo della Repubblica di Berlino), film (Il ragazzo in blu di Friedrich Murnau), luoghi (l’isola Tuanaki; il porto di Greifswald), disegni (i disegni della Luna di Kinau) a vario titolo persi, perché dimenticati, distrutti o spariti e che l’autrice ricostruisce dopo anni di lunghe ricerche. Anche il progetto grafico è particolare e riesce a rievocare la cosa perduta con un’immagine evanescente che precede ogni capitolo e che il lettore deve interpretare attraverso i suoi contorni lucidi, impressi nero su nero.
Grazie a tecniche narrative cangianti (la fiction in prima e in terza persona che si alterna ai ricordi autobiografici e alla rievocazione storiografica) e con una capacità descrittiva di proustiana memoria, l’autrice rianima un mondo perduto che culmina nell’ultimo capitolo in un immaginario archivio di oggetti smarriti nei crateri della luna, con esplicito riferimento all’ariostesco viaggio di Astolfo sul satellite terrestre. Ma nel libro tutto fluisce nel suo contrario e così “la Luna, come ogni archivio, non era un luogo di conservazione, bensì di distruzione cieca, la discarica del mondo, come la memoria che tutto conserva in fondo non conserva nulla”. A ogni perdita corrisponde un ritrovamento e viceversa e solo una memoria non assolutistica, ma selezionatrice, può intervenire in questo movimento incessante per eliminare la distinzione tra assenza e presenza.
La relazione con il tempo, con la memoria, con la storia personale e del mondo è il contrappunto di questo libro, che trasporta il lettore in dimensioni lontane eppure così vicine, obbligandolo a interrogarsi sul suo rapporto con la vita e, in ultima istanza, con la morte. La nostra rimozione della morte è la struttura portante delle riflessioni dell’autrice, ben concretizzate nella plastica descrizione del piccolo centro danese di pescatori di Holm, che nella topografia del loro villaggio hanno collocato il cimitero al centro, dove convergono tutte le vie e dove ci si aspetterebbe di trovare la piazza del mercato. Una sorta di reale convivenza con i propri morti e un monito della nostra destinazione futura.
Altra cifra della scrittura di Schalansky è la lontananza, riscontrabile anche nel suo primo volume del 2009 e pubblicato da Bompiani nel 2013, Atlante delle isole remote. Cinquanta isole dove non sono mai stata e mai andrò. Una scrittura che aborrisce il centro e che si nutre delle note a piè di pagina e degli atlanti in grado di rimpiazzare i mondi reali, ma anche di segnare visivamente la sparizione dello stato in cui è nata l’autrice, la ex DDR tedesca.
Questo suo ultimo libro ci avvince forse perché stiamo vivendo l’esperienza di una perdita imprevedibile, quella del nostro mondo e della socialità come li conoscevamo nel passato e perché ci conduce a riflettere sulla nostra relazione con la fine delle cose, che avvertiamo così palpabile intorno a noi. La perdita delle cose come presa d’atto dello smarrimento di sé, come riesce a sintetizzare in maniera mirabile la poeta polacca Wisława Szymborska nella sua poesia Discorso all’Ufficio oggetti smarriti (1972):
Mi stupisco io stessa del poco di me che è restato:
una persona singola per ora di genere umano,
che ha perso solo ieri l’ombrello sul treno.