A casa è un libro asciutto, lavora come un cuneo. Come se vi prendessero e vi scaraventassero nella vita di qualcuno, senza premesse e senza preparazione. Se non ci fosse il titolo a farci da guida, saremmo completamente perduti. C’è una vividezza incredibile, peraltro, nella scrittura e nel racconto di Judith Hermann. Quel terrazzino che guarda sopra la stazione di servizio, in una città senza nome e senza geografia, dove la protagonista, anch’essa senza nome, fuma le sue sigarette nel buio e nel caldo della notte, quel terrazzino è qualcosa che si imprime nella nostra retina come se l’avessimo visto con i nostri occhi. E anche il polder, quell’insieme di acqua e terra, di dighe costruite da noi umani e di acqua che comunque sale e scende come le pare, che la maggior parte di noi non ha mai visto e forse neppure sentito dire. Luogo che immagino immerso in una luce nordica, di fascino strano e di bellezza inconsueta. A casa è una ricerca, fuori e dentro di sé.
La donna senza nome (lo troveremo, il nome, ma solo nelle ultime pagine) ripercorre il suo passato, le scelte, gli affetti, le perdite, in cerca forse di neppure un senso ma piuttosto un sentiero, una via che possa essere percorsa e ripercorsa. Il passato ha bisogno di una forma e di una strada di accesso, per non sovrastarci e non disorientarci con ricordi disordinati, che si affacciano quando meno te li aspetti. Il passato è fatto di scelte che ora non capiamo più ma che a suo tempo erano le sole possibili. È fatto di relazioni che sono cambiate o sono scomparse. È fatto di un noi stessi, non esiste più nella realtà ma continua a esistere dentro di noi, e si deve accordate e armonizzare con il “noi” che siamo diventati o che stiamo diventando.
È nel tempo della ricerca del suo passato che la donna senza nome arriva al polder: il luogo dove essere a casa si concretizza in modo preciso, per quanto insolito e forse non troppo ospitale. La donna senza nome si installa in una casa isolata e vuota, si cimenta con la solitudine. Che vuol dire anche rumori notturni, una porta che si credeva di aver chiuso e si trova aperta. Solitudine che diventa paura. Di tutto quello che potrebbe succedere, ma anche dell’idea stessa di solitudine. Ma ecco che, nel momento in cui accetta la solitudine, e la paura della solitudine, la tessitura di relazioni e rapporti diventa una possibilità concreta e una realtà. Con il fratello che ha un pub lì vicino, in cui va a lavorare, si apre un rapporto distaccato ma costante. Con la vicina di casa, donna energica e piena di vita, che quasi le impone un’amicizia ruvida e caldissima, fanno gite in bicicletta, o il bagno nelle dighe quando la marea lo permette. Con l’allevatore di maiali della fattoria confinante, un uomo che ha ridotto all’essenziale i suoi bisogni e le sue scelte, ritrova il desiderio semplice e diretto del contatto e del piacere.
Relazioni senza aspettative e senza pretese, che si sviluppano lentamente, con molto riguardo e in un tempo che non è dettato dalle convenzioni esterne ma dal reale bisogno. E che acquistano significato man mano che si svolgono e crescono. E che danno infine un senso di appartenenza. Un senso di casa. Casa in fondo può essere dovunque. È solo un posto dove si sta bene. Può essere un luogo dove accumulare tutto quello che gli altri rifiutano, come nel caso di Otis, l’ex-marito della donna senza nome: con cui si sono molto amati, poi hanno preso strade diverse ma mantengono una fitta e affettuosa corrispondenza. Può essere il viaggio, come è il caso della figlia Ann: che a un certo punto è partita, senza meta se non lo stare lontano dalla famiglia, dalle regole, dal mondo che conosce, alla ricerca di quello che è rimasto incontaminato. O può essere appunto una casa tra la campagna e l’acqua, che non ha nulla ma tranne la capacità di accoglierci. Dunque da buoni lettori pronti a tutto, inoltriamoci in questa storia e prendiamone la ricchezza e la bellezza. Cose austere, certo, senza fronzoli ma vivide.