Joyce Carol Oates rimette in strada (additivo principe lo smalto applicato on the road) quella cassa di risonanza di stile e ferocia oppositiva che la rende sacerdotessa discorde verso una società potente e pericolosa di cui mette al muro la brutalità e le ingiustizie. Questa raccolta di nove racconti, usciti nel 2021 sotto l’egida di The Ontario Review (la traduzione concentrata di Claudia Durastanti è strumento primario di ricognizione), può darsi diano una strigliata a coloro che poco pensano a colei che potrebbe essere protagonista di un Nobel. La nube sensoriale, mitologicamente famosa, in cui la scrittrice avvolge le sue protagoniste torna in grande stile fin dalla prima storia (Deviazione) che sembra (quasi) sorgere dalla fantasia di autori (a lei apparentemente lontani) come Sturgeon e Matheson. La donna pensa di essere in un luogo dove non è: il ritrovarsi dopo l’incidente automobilistico in una realtà sinistramente simile alla propria, ma diversa, recupera nel lettore quel mistero gotico “americano” che tanto ha influenzato l’attenzione letteraria nostrana. Ma in Oates c’è una sfera superiore, il presentimento sismico di sensi che sotto attacco reagiscono con l’eccitazione, portando spesso a eventi spiacevoli e più. Voglia e Notte al neon custodiscono in modo sopraffino quest’energia, per riuscita stilistica e brillantezza di scrittura. Apprezzarli vale per chiunque legga l’autrice di Lockport (luogo di frontiera a un passo da Niagara Falls), novizio o già segnato dal dispiegamento di misteri, desideri e abissi.
Le pagine di Night Neon sono illuminate da una perenne colorazione blu, la più bella e suggestiva tonalità che il neon possa assumere sulla testa di spiriti (e spettri) in fuga e desiderosi di trovare la perfetta novità dietro i vetri di un bar di periferia. La visione del Blue Moon Café fa riemergere alla coscienza della ragazza Juliana, felicemente e finalmente incinta, la sua storia passata e i segreti tenuti nascosti al compagno, e la ragione del conservare nel fondo della sua ampia borsa un punteruolo da ghiaccio lungo quindici centimetri. Anche in quest’ultimo racconto l’automobile trasporta un corpo desideroso in un luogo diverso da quel che dovrebbe essere, ma vibrante e pericoloso. Per Juliana le storie della vita assumono i colori di tutti i luoghi di ristoro e perdizione visitati: frequenze sabbiose, rossastre, blu scuro o luminescenti folgorano le esistenze in uno stato di trance quando va bene, e oscurità totale nel peggiore dei casi. Nei racconti di Oates (ma anche in molti dei suoi romanzi) i colori sono tutti quelli del buio, saturano ampiezze che talvolta sembrano ipotetiche ma che al contrario ringhiano e predano come i grandi spazi americani: da All the Colors of Darkness di un dimenticato Lloyd Biggle alle spudoratezze tragiche di Vollmann e King.
Nessuno vuole confidenza con la morte, ma le protagoniste di questi racconti si accostano ai desideri micidiali di predatori, artisti o vilain, o mediocri compagni di vita: Oates ne scruta e poi filma ogni giornata, basta la cordiale vista sul fiume Detroit e l’olezzo di marciume risalente dall’acqua perché un estraneo comparso all’improvviso spinga una donna, per niente ignara, dalla massa di pensieri “vogliosi” alla distruzione coatta. La scrittrice inietta la propria inquietudine nel cuore di anime cariche di frustrazione, incerte su presente e futuro, e perfino sul passato che le ha mortificate, violentate. Forse la malvagità regna nei geni di un popolo che ha trasformato la vulnerabilità in proiettili da usare senza troppa reticenza. E le mani maschili, nodose e non curate, sono armi messe in campo per togliere di mezzo la vittima dopo l’uso: chi vorrebbe vivere in un posto simile? Se c’è parvenza fantascientifica in tale visione, si configura nel montaggio meccanico di uomini funzionali al proprio violento agire. Sembra di sentire la muffa loro addosso mentre veniamo raggiunti dall’impotenza di tutte queste creature femminili che vorrebbero non essere in pericolo uscendo dal bagno di un locale. Ma infine, per comprendere la disumanità elettrica dentro l’America rural-hollywoodiana osservata da Oates occorre affrontare le pagine di Miss Golden Dreams 1949: qui la terrificante auto-esposizione della pin-up più famosa nella storia, da Playboy in avanti, fa rabbrividire per quanto la copia più “vera” esistente (ricreata da un autentico DNA) riesce a incarnare la definitiva minaccia. Esclama che nessuno vuole un poster, ma la giovane nuda su drappeggi di velluto convinta più di noi d’essere l’unica e vera Marylin, il sex symbol del secolo. Basta un’offerta, la più bassa è di soli ventidue milioni di dollari. Ma come ognuno sa in America: il limite non esiste.